La riforma del lavoro pubblico: quale lezione dopo quindici anni

AutoreFranca Borgogelli
Pagine137-159
Franca Borgogelli
La riforma del lavoro pubblico:
quale lezione dopo quindici anni
S: 1. L’attuazione della riforma del lavoro pubblico: bilanci e proposte. - 2. Le criticità nell’attua-
zione della riforma del lavoro pubblico. - 2.1. Il regime giuridico delle progressioni verticali. - 2.2. I
contratti non standard. - 3. Tornare allo “spirito” della riforma.
1. Trascorsi quindici anni dall’avvio del processo di riforma della regolamentazione
del lavoro pubblico - caratterizzato da un continuum di interventi normativi1 - il bilancio
insoddisfacente circa i risultati raggiunti in termini di ef‌f‌icienza, produttività, economi-
cità dell’organizzazione e dell’azione delle pubbliche amministrazioni ha condotto a pro-
spettare ulteriori modif‌iche della disciplina: introdotta da un vivace dibattito sui media,
a cui hanno fatto seguito iniziative in sede parlamentare2 e intese tra governo e sindaca-
ti3, sembra aprirsi una nuova stagione di riforma.
Peraltro molti degli interventi prospettati, presentati come risolutori, non sembrano
sorretti da una adeguata valutazione e considerazione delle cause cui attribuire i deludenti
risultati sin qui ottenuti: si individuano difetti e lacune della disciplina vigente, per i quali
si propongono e/o si introducono rimedi, senza valutare preliminarmente, sul piano più
generale, in che misura ciò che non soddisfa sia da imputare ai limiti del paradigma di re-
golazione piuttosto che ad una erronea e/o incompiuta attuazione del progetto riformato-
re e all’assenza di una reale volontà, da parte di tutti gli attori coinvolti, di realizzare il
1 Per il quadro delle fasi della riforma del lavoro pubblico dall’inizio degli anni ’90 v. ora Carabelli, Carinci
2007, 32 ss. Sulla disciplina del pubblico impiego alle soglie dell’avvio del processo di avvicinamento alla
disciplina del lavoro privato v. Giannini 1970, Ghera 1975, Rusciano 1978.
2 V. in particolare il progetto di legge delega per l’istituzione di una «Authority sull’impiego pubblico», dal
titolo «Norme in materia di valutazione dell’ef‌f‌icienza e del rendimento delle strutture dei dipendenti pub-
blici», elaborato da un gruppo di giuristi coordinati da Ichino e Mattarella e presentato alla Camera dei
Deputati (primo f‌irmatario on. Turci) e al Senato (primo f‌irmatario sen. Polito) nel dicembre 2006. Sulla
proposta cfr. Ichino 2006a e 2006b; per il dibattito da questa suscitato v. i numerosi interventi sui siti www.
lavoce.info e www.astridonline.it., nonché i rilievi critici di Car uso e Zappalà 2007, 19 ss., Zoppoli 2007a,
577 ss. Per quanto concerne alcune proposte legislative governative v. Ricciardi 2007, 907 ss. e Zoppoli
2007b, 296 ss.
3 Ci si riferisce al «Memorandum d’intesa su lavoro pubblico e riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche», intitolato «Per una nuova qualità dei servizi e delle funzioni pubbliche», sottoscritto il 18.1.2007
dal Governo e dalle organizzazioni confederali di categoria Cgil, Cisl,Uil, integrato il 22.3.2007 con le
modif‌iche proposte da Regioni, Provincie e Comuni: i due testi sono conf‌luiti in un testo def‌initivo, sotto-
scritto il 6.4.2007 anche da altre confederazioni e organizzazioni sindacali, che riguarda tutte le pubbliche
amministrazioni. Il Memorandum non è un contratto collettivo, né un accordo sindacale, e dunque è «pri-
vo di valore giuridico, in senso tecnico. Tuttavia, ciò non vuol dire che abbia poca importanza e che non
abbia ricadute di ordine giuridico: anzi! Se, infatti, nei rapporti sindacali, ha ancora un senso l’antichissimo
principio di civiltà giuridica pacta servanda sunt (…) è chiaro che l’intesa vincola solennemente le parti sul
piano giuridico»: Rusciano 2007a, 231.
138 Studi in onore di Edoardo Ghera
mutamento, anche culturale, che quel progetto presupponeva. In particolare non sembra
si tenga suf‌f‌icientemente conto degli ef‌fetti distorsivi – rispetto al modello regolativo deli-
neato, alla f‌ine degli anni ’90, dalla seconda fase di costruzione della nuova disciplina –
provocati dai molteplici interventi correttivi ef‌fettuati dal legislatore dopo il 2000, con-
traddittori rispetto al modello originario e/o collegati alla contingenza politico-f‌inanziaria,
da discutibili interpretazioni giurisprudenziali, nonché da una eccessiva “invadenza” della
contrattazione collettiva, sovente guidata da interessi meramente corporativi. Eppure non
mancano analisi puntuali della dottrina4 che, rif‌lettendo sui principali nodi problematici,
indicano con chiarezza come le criticità discendano anche da ambiguità e incompletezze
della disciplina, ma soprattutto da gravi errori nella sua attuazione; e suggeriscono i percor-
si da compiere per rimediare, con interventi che si conf‌igurano talvolta di mera manuten-
zione, talaltra più incisivi, ma coerenti con le f‌inalità dell’originario progetto riformatore.
Tuttavia i risultati di queste analisi dottrinali appaiono trascurati non solo dal dibattito in
sede mediatica, ma anche da alcune delle proposte in sede legislativa e negoziale; dunque
non sembra ripetersi quella felice sinergia tra giuristi, sindacati, legislatore che ha positiva-
mente connotato il processo di riforma soprattutto nella seconda fase (in corrispondenza
con l’attuazione della legge delega n.59 del 1997) e che si è interrotta, anche per la tragica
morte di un suo centrale protagonista, alle soglie della formulazione del Testo unico (che
infatti ha tradito le aspettative)5.
La ricerca di una risposta all’interrogativo se le cause del fallimento siano da ricer-
care nell’incapacità di attuare la riforma, piuttosto che nei limiti del modello razionale
ad essa sotteso, non serve peraltro solo a capire su quale fronte debbano orientarsi gli
interventi correttivi, ma assume una valenza più ampia. Se si considerano, infatti, gli
obiettivi di fondo perseguiti dalla riforma ordinamentale ci si accorge come essi acqui-
stino un rilievo generale in relazione alle sf‌ide che il diritto del lavoro si trova oggi ad
af‌frontare, sf‌ide che coinvolgono la sua stessa identità disciplinare. Ci si riferisce alle due
f‌inalità, strettamente collegate, che hanno guidato l’estensione al lavoro pubblico delle
regole, individuali e collettive, del lavoro privato: accrescere l’ef‌f‌icienza delle pubbliche
amministrazioni, unif‌icare la disciplina del lavoro subordinato.
In primo luogo occorre ricordare come il disegno di riforma af‌f‌idasse all’estensione
al settore pubblico delle leggi che governano il lavoro nel settore privato, e dei principi
propri dell’autonomia contrattuale individuale e collettiva, una f‌inalità in parte diversa
da quella che storicamente ha principalmente connotato (e connota tutt’ora) il loro
utilizzo nel settore privato. Infatti, l’applicazione al lavoro pubblico delle norme che re-
golano il rapporto di lavoro nel privato non avviene tanto per proteggere il lavoratore,
quanto per introdurre elementi di ef‌f‌icienza e f‌lessibilità nella cura degli interessi gene-
rali e attribuire poteri al dirigente-datore di lavoro6, raf‌forzandone la funzione direttiva
e riportando il soggetto sindacale al ruolo di controparte e non più di cogestore. In altri
termini, l’attribuzione al dirigente-datore di lavoro pubblico dei poteri del privato dato-
4 Si tratta soprattutto dei giuristi che hanno svolto un ruolo importante, più o meno diretto, nell’elabora-
zione della riforma, nella prima e nella seconda fase.
5 Non onorando le implicazioni sistematiche, razionalizzatici e stabilizzatrici della delega: per una ricostru-
zione della vicenda v. Zoppoli 2001, 107 ss.
6 Liso 2000, 177 ss.; v. altresì le considerazioni di Ales 2007, spec. 8 ss.

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