Unità e pluralità del lavoro nel sistema costituzionale

AutoreMario Giovanni Garofalo
Pagine439-459
Mario Giovanni Garofalo
Unità e pluralità del lavoro nel sistema costituzionale
Erano passati vent’anni. Molt’acqua era corsa sotto i ponti (...);
molta gente era morta, molta ne era nata, molta se n’era fatta adulta e vecchia;
e ancor più nascite e morti c’erano state nel mondo delle idee:
molto di bello e molto di brutto, fra quanto era vecchio, era sparito,
molto di bello, fra quanto era nuovo, si era sviluppato, e molto,
anzi molto di più – fra quanto era nuovo – incapace di sviluppo,
mostruoso, aveva fatto la sua comparsa sotto il sole.
Lev Tolstoj, I due ussari, (1856), trad. it., ed. l’Unità, 1992, cap. IX.
S: 1. La complessità del lavoro e la sua rappresentazione giuridica. - 2. La mancanza di una visione
sistemica delle norme costituzionali sul lavoro. - 3. Le norme costituzionali e la grande riforma del
diritto del lavoro. - 4. Il lavoro da tutelare dell’art. 35 Cost. - 5. Diritto di sciopero e libertà sindacale
nel lavoro autonomo. - 6. L’art. 36 Cost. e il lavoro autonomo. - 7. Una Costituzione fondata sul la-
voro e una Comunità fondata sul mercato e sulla concorrenza?
1. È ormai più di un quarto di secolo che i giuslavoristi si interrogano sul futuro
della loro disciplina1; e con questo dimostrano un’acuta sensibilità – degna della miglio-
re tradizione - all’interazione tra il sottosistema giuridico oggetto dei loro studi e il seg-
mento della realtà sociale, quello dei rapporti di produzione, che quel sottosistema è
chiamato a regolare.
Esula dai limiti di questo lavoro – e dalle competenze di chi scrive – descrivere le
modif‌icazioni avvenute, nello stesso periodo di tempo, nei modi e nelle condizioni con
i quali il sistema produttivo (rectius, chi esercita il potere su di esso) utilizza il fattore
lavoro2. Ai f‌ini del discorso che intendo condurre è suf‌f‌iciente citare un Maestro come
Umberto Romagnoli che, con la sua consueta icasticità, ha af‌fermato: «Il secolo del La-
voro – “maiuscolo, vale a dire salariato, produttivo, manifatturiero”, aggiunge citando
Accornero – lo abbiamo alle spalle, mentre in quello che ci sta di fronte il lavoro si de-
clina al plurale e, per quanto frammentato e diversif‌icato, non ce n’è per tutti in eguale
quantità e qualità»3.
Il lavoro ha cioè perduto la propria unità di luogo e di azione; non può più essere
rappresentato unitariamente, neanche (forse, ancor meno) dalla sua rappresentazione
giuridica. Quando si è formato l’attuale diritto del lavoro, la relazione sociale da regola-
re era quella del lavoro operaio nella grande fabbrica fordista-taylorista; oggi questo la-
1 Se datiamo questa rif‌lessione dalla relazione di Giugni (1983) al VII congresso nazionale dell’Aidlass te-
nutosi a Bari dal 23 al 25 aprile 1982 sul tema Prospettive del diritto del lavoro negli anni ’80.
2 La bibliograf‌ia in materia è sterminata e non può darsene conto in questa sede. Un buon punto di parten-
za, nella letteratura sociologica italiana, è Reyneri 2005. Una convincente e sintetica descrizione del conte-
sto macro-economico è in Fumagalli 1997, 133 ss.
3 Romagnoli 2005, 105 ss. ed ivi 131.
440 Studi in onore di Edoardo Ghera
voro è tramontato ed è stato sostituito dalla molteplicità dei lavori e, dunque, ogni di-
scorso in materia, anche quello giuridico, deve rassegnarsi ad essere plurale, appunto sui
lavori e non sul lavoro. È questo, molto schematicamente, il ragionamento che è alla
base dei tanti discorsi che – con esiti diversissimi – si fanno sulla necessità di rifondare il
diritto del lavoro4.
Ma la funzione del diritto non è quella di “rappresentare” la realtà, bensì quella di
regolarla e, quindi, l’argomento fattuale del superamento di un sistema produttivo fon-
dato sull’egemonia della grande fabbrica manifatturiera e della moltiplicazione dei lavo-
ri nulla ci dice sull’esistenza o meno di regole comuni ai diversi lavori e su quali aspetti5,
regole che, ovviamente, facciano astrazione dalle dif‌ferenze o da alcune di esse.
Vi è di più: il lavoro è mai stato al singolare? L’unitarietà del fenomeno lavoro non
è frutto di un’indebita proiezione di una realtà relativamente limitata nel tempo e nello
spazio, quella appunto del lavoro dell’operaio massa nella fabbrica fordista-taylorista su
tempi precedenti e successivi e su pezzi del sistema produttivo complessivo - il lavoro
impiegatizio e dirigenziale, il lavoro nei servizi privati e pubblici, il lavoro nelle piccole
imprese, il lavoro agricolo e via dicendo - che non hanno (quasi) mai conosciuto quel
metodo di organizzazione del lavoro6? In altre parole, vi è mai stata, per il lavoro, un’uni-
tà di luogo e di azione?
È a Lodovico Barassi che risale l’eredità – a mio modesto avviso, attiva7, anche se può
certamente opinarsi il contrario8 - di una rappresentazione giuridica unitaria del lavoro9
4 Anche su questo argomento la bibliograf‌ia è vastissima e non è possibile, in questa sede darne adeguato
conto. Basti rinviare al documento di Tiraboschi (2005) nel quale l’A., oltre naturalmente ad esporre le
proprie personali posizioni, dà conto, sinteticamente ma esaurientemente, della vera babele di opinioni
espresse nel corso dei lavori di una Commissione di studio che, durante la XIV legislatura, avrebbe dovuto
formulare un progetto di Statuto dei lavori dando seguito al Libro bianco del Ministro Maroni. E, si badi,
questa Commissione - pur essendo composta da numerosi illustri giuslavoristi dei più diversi orientamenti
politici - non rif‌letteva l’intero spettro delle posizioni in campo: erano, infatti, assenti i giuslavoristi vicini
alla Cgil; se ci fossero stati anche questi, il ventaglio delle opinioni sarebbe stato ancora più ampio. Ottimi
panorami del dibattito sono anche in Mariucci 2006 e in Del Punta 2008, 253 ss. ed ivi 355 ss.
5 «Ciò che ad ogni costo si deve evitare è la confusione, tanto frequente e tanto ingannatrice, della cono-
scenza diretta ad un “dover essere giuridico” con la conoscenza diretta ad un “essere” reale», così Kelsen
1952, 183; ma v. anche 72 ss (e, pure, Kelsen 1966, 29 ss.); ma possono aggiungersi, tra i tanti, Bobbio
1941, 197 ss. e Ross 1978.
6 Barbieri P. e Scherer (2005, 291 ss., spec. 300) osservano: «già nel 1970, cioè nel pieno del periodo fordi-
sta in Italia, meno del 60% degli occupati aveva un impiego standard».
7 Perché evita che il diritto del lavoro sia un diritto solo caritatevole e residuale, facendone il sistema di
norme che regola la relazione giuridica fondamentale dell’attuale modo di produzione: «se la società per
azioni è la struttura giuridica che ha consentito la raccolta e l’impiego dei capitali, il contratto di lavoro è
l’istituto che ha reso possibile l’organizzazione della produzione (…) e, quindi, la riproduzione del capitale
stesso» (così, Giugni 1989, 245 ss. ed ivi 255).
8 Giudizi fortemente critici nei confronti dell’eredità barassiana, proprio sul punto della costruzione
dell’unif‌icante fattispecie contrattuale del lavoro subordinato, sono stati espressi da Spagnuolo Vigorita
1967; da Pedrazzoli 1985; v. anche Gaeta 1997, 521 ss.; una rivalutazione del ruolo di Barassi è, invece, in
Castelvetri 1994; una rassegna critica delle posizioni della dottrina attuale sul pensiero di questo A. è in
Cazzetta 2007a, 291 ss. Più di recente, v. gli atti del Convegno organizzato dall’Università Cattolica del S.
Cuore, in Napoli 2003. In particolare, un giudizio negativo è nella relazione di Romagnoli 2003, 47 ss. In
questo Convegno ho motivato il giudizio positivo espresso nel testo Garofalo M.G., 2003, 145 ss.
9 V. Giugni 1989a, 258.

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