Le molte vite del divieto di interposizione nel rapporto di lavoro

AutoreRiccardo Del Punta
Pagine315-335
Riccardo Del Punta
Le molte vite del divieto di interposizione nel rapporto di lavoro
S: 1. Un divieto obsoleto? - 2. Interposizione e subordinazione. - 3. La cosa oltre il nome: la nuo-
va fattispecie illecita. - 4. La mobile (e imprecisa) frontiera tra appalto e somministrazione di lavoro.
- 5. Le conseguenze dell’appalto f‌ittizio: la costituzione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore. - 6.
Segue: la rilevanza dei pagamenti e degli atti pregressi e la responsabilità per i debiti residui.
1. Il tema delle esternalizzazioni, e delle regolazioni che faticosamente cercano di
rincorrerle (quanto meno entro i conf‌ini nazionali), è stato af‌frontato, in più occasioni,
in un’ampia prospettiva funzionalistica1, in ef‌fetti la più adatta a valorizzare le interrela-
zioni dinamiche tra i diversi istituti (in primis, fra la cessione di ramo d’azienda e l’ap-
palto di opere o servizi).
In questo scritto ci si porrà, invece, in un’ottica esclusivamente esegetica e ricostrutti-
va, con l’intento di misurarsi con i seguenti interrogativi: il divieto di interposizione nelle
prestazioni di lavoro, già sancito dall’art. 1 della “storica” legge 23.10.1960, n. 1369, è
venuto meno a seguito dell’abrogazione di tale legge, operata dall’art. 85, c. 1, del d.lgs. n.
276/2003, o deve ritenersi tuttora operante, seppure sotto mutate vesti, nell’ordinamento?
E se del caso, sulla base di quali presupposti sostanziali, e con quali conseguenze?
Il punto di domanda, anzitutto sull’interrogativo preliminare, è giustif‌icato dal fat-
to che, nel dibattito seguito alla riforma del 2003, a fronte di una maggioranza di com-
mentatori che hanno ribadito la vigenza del divieto in discorso2, ancorché alterato nel
contenuto e nelle sanzioni, altri ne hanno sostenuto la sostanziale scomparsa3.
L’incertezza degli addetti è stata captata dal sensibile mondo degli operatori, soprat-
tutto dei servizi, nel quale ha cominciato a circolare la convinzione che gli appalti fosse-
1 V., in particolare, De Luca Tamajo 2002.
2 V., soprattutto, Carinci 2007, spec. 1027 ss.; Ichino 2004, spec. 265 ss., secondo il quale il risultato pra-
tico della nuova normativa è sostanzialmente conforme all’orientamento giurisprudenziale già formatasi,
negli anni ’90 del secolo scorso, sulla legge n. 1369/1960; Magnani 2005, 283 ss.; Scarpelli 2004a; Id.
2004b. Nel senso che il divieto di dissociazione tra titolarità del rapporto e dell’organizzazione produttiva
conserva uno “spazio signif‌icativo” anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 276/2003, pur nell’aggiorna-
mento dei relativi indici di fattispecie, e pur nel quadro di una proposta di politica del diritto orientata
dall’idea della “responsabilità congiunta”, v. Corazza 2004, cap. I, spec. 34-35. Per la tesi della continuità,
pur con varianti, tra le due discipline, che si cercherà qui di argomentare più a fondo, mi permetto di riman-
dare anche a Del Punta 2004, 161 ss., e Id. 2005, 145 ss.
3 V. Romei 2006, 403 ss., spec. 405 e 435-436, per la cui tesi (sostenuta, pur con progressivi distinguo, in
varie occasioni pubbliche, anche da Maresca) v. infra, § 3. In una posizione mediana, ma sostanzialmente
non divergente dall’approccio maggioritario, e dunque non del tutto coerente con se stessa sul punto in
discussione, v. Chieco 2004, 91 ss., che dopo l’af‌fermazione (p. 92) per cui la riforma avrebbe comportato
“la sostituzione di un generale (salvo eccezioni) divieto di interposizione con un sistema di libera, seppure
regolata, fornitura di manodopera”, si è impegnato a ricostruire, con f‌ini rilievi critici, la linea distintiva (o
“d’ombra”) tra l’appalto e la somministrazione (illecita) di manodopera (ivi, p. 147 ss.); dell’A., v. Chieco
2006, 513 ss.
316 Studi in onore di Edoardo Ghera
ro stati “liberalizzati”, e che la somministrazione di manodopera fosse stata restituita,
senza distinguo, alla legalità.
Non è raro, del resto, che le convinzioni siano la proiezione dei desideri, per cui non
stupisce che, dopo la “rottamazione” di una normativa tanto remota, e conclamato sim-
bolo di rigidità (per quanto mai ostativa alle vere esternalizzazioni), le attese di una
massa di “utenti”, suggestionate dal messaggio di f‌lessibilità e di modernizzazione del
Decreto Biagi, si siano proiettate, malgrado le avvertenze degli stessi ideatori della rifor-
ma4, sulla facile equazione per cui l’abrogazione della legge n. 1369 del 1960 non pote-
va non aver comportato anche il superamento tout court del divieto di interposizione.
Il dato sorprendente, semmai, è che le distorsioni mediatiche sembrano aver avuto
un’inf‌luenza di ritorno sul dibattito scientif‌ico, nel quale si è percepita una dif‌fusa esita-
zione a confrontarsi col nero su bianco delle nuove disposizioni (a cominciare dall’art.
29 del d.lgs. n. 276/2003), al f‌ine di of‌frirne la migliore (o la meno peggiore) ricostru-
zione compatibile col sistema.
2. Negli anni ’90 del secolo scorso, mentre una parte della dottrina si dedicava a
consacrare il divieto di interposizione, elevandolo a principio generale del diritto del
lavoro (la coincidenza fra la titolarità del rapporto e l’ef‌fettivo utilizzatore della presta-
zione lavorativa)5, in altri f‌iloni dell’opinione esso era considerato poco più di un reper-
to preistorico.
Non di rado, peraltro, i rilievi negativi risentivano di una sovrapposizione fra la
critica alla formulazione del divieto e quella al precetto come tale: se facile era la prima,
assai meno scontata si poteva ritenere la seconda, dato che alle spalle del divieto di inter-
posizione si stagliava da sempre, con tutta la sua imponenza sistematica, nulla di meno
che l’art. 2094 c.c. Tanto che Oronzo Mazzotta si era spinto sino a sostenere che la sen-
tenza dichiarativa pref‌igurata dall’art. 1, ultimo comma, della legge n. 1369 del 1960,
rappresentava una mera variante dell’accertamento giudiziale della sussistenza di un rap-
porto di lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.6.
Rispetto a questa pur fondamentale ricostruzione, avevo ritenuto di suggerire, in
uno studio del 19957, che la coincidenza fra l’ambito sostanziale delle due norme era
(ampia, ma soltanto) parziale: pur non essendo revocabile in dubbio che nel caso di
esercizio diretto, da parte dell’appaltante, del potere direttivo sui lavoratori formalmente
dipendenti dall’appaltatore, detti lavoratori dovessero essere dichiarati alle dipendenze
dell’ef‌fettivo utilizzatore in virtù sia dell’art. 1 u.c. legge n. 1369 che dell’art. 2094 c.c.,
e in entrambi i casi tramite sentenze di accertamento, v’era tuttavia un’area nella quale
l’art. 1 aggiungeva qualcosa alla fattispecie del codice civile: l’ipotesi di un appaltatore
che, pur dirigendo in prima persona i propri dipendenti, si rivelasse comunque privo,
nell’esecuzione di un appalto di opere o servizi, dei requisiti previsti dall’art. 1655 c.c.,
4 Tiraboschi 2006, spec. 499-500.
5 V., in particolare, De Simone 1995.
6 Mazzotta 1979.
7 Del Punta 1995, 625 ss.

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