Imporre una fede religiosa è maltrattamento in famiglia. Famiglia, libertà e religione nella società d?oggi

AutoreRaffaella Losurdo
Pagine139-154

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I giudici della Corte di Cassazione, investiti della questione che concerneva un Testimone di Geova che pretendeva di imporre il proprio credo religioso alla moglie hanno asserito che «obbligare il coniuge ad abbracciare una scelta di fede nella quale non si riconosce equivale a maltrattarlo», ovvero «l’imposizione ad altri delle proprie convinzioni religiose» costituisce una «condotta consapevolmente antigiuridica», un comportamento illecito perseguibile ex art. 572 c.p. che punisce i maltrattamenti in famiglia. La vicenda è purtroppo finita tragicamente con la morte della donna, ma il marito omicida è stato condannato anche a norma del suddetto art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia: un reato che prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni).

L’imputato ha tentato di difendersi sostenendo che la visione dei rapporti familiari interna alla sua confessione religiosa è «caratterizzata da un rapporto di coppia basato sulla supremazia dell’uomo» e che, quindi non si potrebbe parlare di imposizione, ma di normali regole su cui si fonda il rapporto tra coniugi «alla luce dell’adesione a quella visione di vita». Dunque, l’imputato riteneva assolutamente normale l’imposizione alla donna del proprio credo religioso, non riuscendo a ravvisare in ciò nulla di illecito.

Tale tesi difensiva appare debole anche nel contenuto religioso, poiché i Testimoni di Geova condannano ogni tipo di violenza fisica, verbale e psicologica e ritengono che nell’ambito familiare ciascuno sia libero di professare la propria religione, come si evince dalle pubblicazioni degli stessi: «L’esempio di Gesù insegna ai mariti che l’autorità cristiana non conferisce un potere dispotico. Implica invece rispetto e amore altruistico» e ancora «Se tua moglie ha una fede diversa dalla tua, cerca in modo particolare di mostrarle rispetto e di tenere conto dei suoi sentimenti»1.

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La Suprema Corte ha stabilito il diritto della persona di autodeterminarsi per quanto riguarda la sfera religiosa. Ha conseguentemente affermato che il proselitismo è la libertà di manifestare la propria fede, ma non certo di imporla con forza. Il diritto alla libertà religiosa, come sancito dall’art. 19 Cost., stabilisce che ciascuno può liberamente professare la propria fede e farne propaganda, ma la Corte di Cassazione nella sentenza in esame ha posto un limite: la religione non si può imporre.

La pronuncia n. 64/2010 assume rilevanza, perché insegna che attraverso il credo religioso la personalità dell’individuo può esprimersi nelle sue diverse forme e possibilità ed è, quindi, necessario che non ci siano forzature, soprattutto all’interno della famiglia, quale luogo in cui il carattere e la personalità dell’individuo si formano.

L’art. 572 del Codice penale disciplina il reato di “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” e stabilisce che «chiunque (…) maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni 14, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni»; se dal fatto derivano lesioni personali o la morte, la pena è aggravata.

La famiglia diventa, in alcuni casi, scenario di violenze e maltrattamenti che comportano la lesione di diritti personalissimi di rilevanza penale, oltre che ledere l’osservanza dei diritti e l’adempimento dei principali obblighi nascenti dal matrimonio. Tale fenomeno ha una portata piuttosto ampia e riguarda numerosi beni giuridici penalmente rilevanti, quali ad esempio l’onore e la libertà morale e diversi soggetti passivi appartenenti alla compagine familiare.

La norma testé citata è contenuta nel Capo IV del Titolo XI del Codice penale, che si occupa dei delitti contro l’assistenza familiare e, precisamente, l’art. 570 c.p. tutela la famiglia nel suo complesso, disciplinando la violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’art. 571 c.p. punisce l’uso dei mezzi di correzione o di disciplina, gli artt. 573 e 574 c.p. si occupano della sottrazione consensuale di minorenni e di persone incapaci. L’art. 572 c.p. secondo l’interpretazione attualmente prevalente2, oltre a tutelare la famiglia, quale bene giuridico di categoria, tutela anche «l’integrità psicofisica del soggetto passivo». Altra corrente interpretativa ritiene, invece, che i maltrattamenti ledano l’intera personalità dell’individuo – in quanto ripetuti nel tempo – che diventa dunque il vero bene giuridico tutelato3.

L’art. 572 c.p., come si dirà meglio in seguito, si riferisce alla famiglia intesa non solo come famiglia tradizionale, ma anche come famiglia di fatto, non essendo fondamentale il riconoscimento civile dell’unione, ma l’esistenza di relazioni e rapporti umani giuridicamente rilevanti, indipendentemente

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dal fatto che si tratti di unioni riconosciute o di fatto. La famiglia va intesa come cellula fondamentale della società nella quale si sviluppa la personalità dell’individuo e l’insieme dei rapporti tra i componenti della stessa costituiscono condizione necessaria per l’applicazione della suddetta norma. In realtà quest’ultima, così come formulata, appare piuttosto difficile da applicare nella realtà, perché non sembra essere sufficiente un singolo episodio di maltrattamento al fine di applicare le pene previste.

È stato rilevato, in dottrina, che il reato in questione «integra un’ipotesi di reato necessariamente abituale», dal momento che lo stesso è caratterizzato dalla sussistenza di una serie di fatti, anche non identici tra loro, prevalentemente commissivi (ma anche omissivi, se si considerano i doveri positivi di assistenza che derivano dal rapporto familiare o, comunque, dalla relazione esistente tra agente e persona offesa), i quali se considerati singolarmente potrebbero anche risultare non punibili e, conseguentemente, non perseguibili, ma «acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo»4.

La norma in esame prevede che il fatto tipico consista nella condotta di chi maltratta una persona della famiglia ed il bene protetto sarà dunque rappresentato dai diritti della persona, della dignità personale, del rispetto, dell’onore, della reputazione ed anche dell’integrità fisica.

Il dettato codiciale utilizza il verbo maltrattare per descrivere la condotta del delitto; tale predicato è strettamente connesso ai verbi mortificare, far soffrire (nel senso che il primo tende a preannunciare gli altri due). Pertanto, l’attenzione deve essere puntata sugli effetti del delitto più che sulla condotta.

I maltrattamenti suddetti possono assumere diverse forme5 e, come già messo in luce, acquistano rilevanza penale per la loro reiterazione nel tempo; infatti, la giurisprudenza evidenzia ripetutamente che il delitto di maltrattamenti in famiglia è costituito da una condotta abituale che consiste in più atti collegati dal nesso di abitualità e dall’intenzione criminosa finalizzata a ledere l’integrità fisica e morale del soggetto passivo, in linea di massima. Tra i

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maltrattamenti sono annoverati tutti i tipi di offesa a danno di uno dei diritti personalissimi del soggetto passivo.

Si può parlare, per ciò che concerne la sentenza qui in esame, di «durevoli sofferenze fisiche e morali nei confronti di una persona della famiglia» ed il soggetto attivo nel reato di maltrattamento, a differenza di quanto erroneamente sostenuto dal legislatore («chiunque…maltratta una persona della famiglia…»), può essere soltanto un soggetto appartenente alla stessa famiglia dell’offeso.

L’esplicito riferimento alla famiglia effettuato dal legislatore sta a significare che tanto il marito quanto la moglie possono essere soggetti attivi e passivi nella realizzazione dell’illecito penale ex art. 572 c.p.. Appare utile specificare cosa si intenda per famiglia, posto che il delitto in questione prevede un raggio di considerazione più ampio, sulla base di autorevoli indicazioni giurisprudenziali6 e dottrinarie, che fanno rientrare nel concetto di famiglia anche la famiglia cosiddetta di fatto, essendo rilevante ai fini dell’inquadramento del reato la sussistenza di relazioni giuridicamente rilevanti. Ai fini della configurabilità del reato non assume importanza la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di persona convivente more uxorio. Dunque, il richiamo esplicito alla famiglia, nell’art. 572 c.p., deve considerarsi riferito ad «ogni consorzio di persone fra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo», facendo rientrare in questa nozione anche la famiglia di fatto7. Inoltre, visto che si vanno sviluppando nel tempo nuovi modelli di famiglia, se ciò che assume rilevanza è l’affectio familiaris, quest’ultima può assurgere a presupposto di mortificazione anche nella convivenza more uxorio8.

Questo orientamento era stato già messo in luce in una pronuncia della Cassazione del 9 dicembre 1992, lì dove si evince che per famiglia si intende un consorzio tra persone tra le quali si siano costituiti rapporti «di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di convivenza», fondati su stabili relazioni sentimentali o consuetudini di vita. Il medesimo è stato nel nuovo secolo ulteriormente confermato9, dalla stessa Cassazione, la quale ha ribadito che il reato di maltrattamenti non necessita di «vincoli di parentela civili o naturali», ma sussiste anche in presenza di una convivenza more uxorio, perché anche grazie a tale rapporto si viene a creare una comunità familiare degna di tutela da parte del legislatore.

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La famiglia è stata definita dagli studiosi del diritto pubblico come la formazione sociale primaria in cui si svolge la personalità dell’uomo e, nel linguaggio comune, essa rappresenta il nucleo fondamentale della società costituito da genitori e figli. La Dichiarazione universale dei...

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