I primi quarant' anni dello statuto dei lavoratori. Elogio del riformismo nobile

AutoreRoberto Voza
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Le leggi, soprattutto quelle importanti, non sono funghi che si schiudono all’improvviso dopo un temporale. Di solito, esse hanno prima una gestazione nel tessuto sociale, culturale e politico, in cui cominciano a germogliare le idee e i valori di cui sono portatrici.

Gino Giugni lo ha detto con parole chiarissime: lo Statuto dei lavoratori è stato “il frutto di una felice congiunzione fra la cultura giuridica e il movimento di massa”. È stato, cioè, l’approdo di una stagione di lotte sociali, come è avvenuto – proprio in quegli anni – per altre leggi importanti.

Sotto questo profilo, va detto che la legge 300/1970 seppe raccogliere e valorizzare le spinte provenienti dai movimenti di fine anni ’60, ma esercitò anche una forte mediazione, incanalando quei fermenti in una logica istituzionale. In quegli anni nelle fabbriche, nelle piazze, nelle scuole e nelle università era in corso una rivoluzione all’insegna dell’assemblearismo, della democrazia diretta, della contestazione radicale di ogni compromesso istituzionale. Una parte, nemmeno rilevante, di quel movimento, prima ma soprattutto dopo l’approvazione dello Statuto, continuò ad ammonire che si trattava dell’ennesimo tentativo borghese di imbrigliare le lotte operaie.

Del resto, lo stesso Partito comunista, soffrendo come tante volte nella sua storia, scelse di astenersi al momento del voto. Giuliano Pajetta, fratello del più noto Giancarlo, parlò in aula dello Statuto come di un passo in avanti, con molti aspetti positivi, ma non di una vera e propria svolta.

Fortunatamente lo Statuto vide la luce e oggi possiamo dire che avranno mancato l’assalto al cielo, però i movimenti operaio, studentesco e femminile, contestando l’autoritarismo nella fabbrica, nella scuola/Università e nella famiglia, contribuirono a lasciare tracce concrete e importanti come lo Statu-

* Il testo riproduce il contenuto della Lectio magistralis tenuta per l’Associazione ‘Casa Di Vittorio’ in data 16 novembre 2010, presso la I Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.

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to dei lavoratori, i decreti delegati nella scuola, la legge sul divorzio. Nessun revisionismo ottuso può cancellare questo dato storico.

Ex facto oritur ius, usano dire i giuristi. E tra i fatti, direi addirittura gli aneddoti, che hanno generato lo Statuto vorrei citarne alcuni, che forse i più giovani non conoscono.

Partiamo dalla norma di apertura della legge 300, secondo cui “i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.

Se volessimo provare a collocare storicamente i primi semi da cui è nata questa norma, dovremmo risalire ai primi anni cinquanta ed esattamente al 1952, quando un certo Battista Santhià, responsabile dei servizi sociali della FIAT, fu licenziato in tronco. La particolarità del caso fu rappresentata dall’esplicita motivazione del licenziamento, che fece riferimento – senza giri di parole – alle opinioni politiche professate dal lavoratore e ritenute incompatibili con l’interesse dell’impresa. Santhià, infatti, era notoriamente comunista.

Soltanto nei primi sei mesi del 1952, i licenziamenti politici in Italia raggiunsero la cifra di 2.000 operai. Per citare un caso pugliese, ho letto che, tuttora, nell’Arsenale della Marina Militare di Taranto, presso l’archivio dell’ex Ufficio matricola del personale civile, esisterebbe una vecchia cassaforte, dove sarebbero depositati tutti gli atti ‘riservati’ relativi agli operai licenziati dallo stabilimento per motivi politici.

A seguito del licenziamento di Santhià, una rivista che si chiamava Società riunì un gruppo qualificato di giuristi, di diversa estrazione, e pose loro un quesito così formulato: “il caso Santhià è di interesse soltanto politico oppure ha anche rilievo nella sfera del diritto?”

La domanda era di fondamentale importanza. Un grande giurista come Vezio Crisafulli seppe cogliere perfettamente il senso strategico di quell’interrogativo, riformulandolo nei seguenti termini: “è possibile – si chiese Crisafulli – che i diritti di libertà, costituzionalmente garantiti nei confronti dei pubblici poteri, siano poi concretamente offesi e addirittura nullificati dai privati e nei rapporti tra privati?”

Due anni dopo il caso Santhià, e precisamente nel 1954, a Torino la Direzione della FIAT (Sezione Ferriere, reparto Laminatoi) venne a conoscenza che uno sciopero era in preparazione. La Direzione incaricò una guardia giurata di individuare i promotori e di riferire i discorsi degli operai, unendosi agli stessi e travestendosi da operaio, con tuta, sciarpa al collo e basco. Un operaio se ne accorse e denunciò il fatto al caporeparto, dicendo: “se quella spia non se ne va, noi fermiamo il reparto”. Di tutta risposta, la Direzione aziendale si complimentò con la guardia giurata e licenziò l’operaio per giusta causa.

Ebbene, tre lustri dopo, troviamo scritto nell’articolo 2 dello Statuto che il datore di lavoro, soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale, può

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ricorrere alle guardie giurate, le quali non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale. Nello stesso senso, l’articolo 3 aggiunge che i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati.

Potremmo andare avanti e citare l’art. 4, quello che vieta l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. A proposito di questa norma, Giugni evidenziò “l’apporto di carattere creativo da parte del movimento”, raccontando un aneddoto che forse pochi conoscono. Cito testualmente le sue parole: “Sapete perché l’art. 4, accanto all’uso della Tv, limita anche i controlli a distanza con un’espressione molto più generica? Perché tre operai della OM di Brescia, vennero un giorno all’ufficio legislativo del ministero del Lavoro e dissero: «c’è questo problema». La proposta, che contemplava solo l’uso delle televisioni, venne cambiata”.

Che dire, poi, di quel famoso articolo 7, sulle sanzioni disciplinari, che prescrive all’imprenditore di render pubblico il codice disciplinare, ossia l’elenco delle infrazioni, delle sanzioni e delle procedure di contestazione? Si tratta della trasposizione – nella vita aziendale – di un principio forgiato dall’Illuminismo giuridico, la regola del nullum crimen, nulla poena, sine lege. Lo stesso articolo impone al datore di lavoro di contestare l’addebito disciplinare e di consentire al lavoratore l’esercizio del diritto di difesa, altro principiocardine del garantismo liberale. Dunque, si può dire che con l’art. 7 entrava in fabbrica non Karl Marx, ma semmai Cesare Beccaria.

Insomma, grazie allo Statuto la fabbrica cessava di essere...

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