Affidamento condiviso e residenza del minore

AutoreConcetta Maria Nanna
Pagine179-204

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Per casa familiare1 deve intendersi quel complesso di beni (mobili ed immobili) funzionalmente collegati tra loro, per garantire e soddisfare le esi-

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genze dell’aggregazione familiare, sì da costituire il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini familiari. Essa non è dunque, semplicisticamente, il bene immobile destinato a residenza della famiglia, ma quel complesso di beni che ha costituito il centro della vita familiare, e nel quale anche ogni singolo bene mobile rappresenta un momento di aggregazione, di affetto, e contribuisce a creare quell’habitat, che è necessario preservare, per il benessere dei figli minorenni (e maggiorenni non autosufficienti), in modo da consentire il loro sviluppo della personalità nel modo più sereno possibile, anche se in momento doloroso, quale è quello della separazione dei genitori.

Precedentemente alla riforma del diritto di famiglia del 1975, nessuna norma disciplinava l’assegnazione della casa familiare, indicando a quale dei due coniugi dovesse essere attribuita, nella fase “patologica” del rapporto matrimoniale. Conseguentemente, la prevalente giurisprudenza si limitava ad assegnare la casa “coniugale”, in relazione al diritto reale o personale di godimento, vantato da uno dei due coniugi2. Una giurisprudenza minoritaria, tuttavia, riteneva possibile assegnare la casa al genitore affidatario dei figli minori, in considerazione di un “diritto della famiglia” esistente sul bene immobile, anche nell’interesse della prole3. Soltanto con la legge n. 151/75 il giudice è stato formalmente investito dell’obbligo di assegnare la casa familiare, che “spetta di preferenza, e ove possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli”, secondo l’ormai abrogata versione dell’art. 155 c.c.

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Il problema era tuttavia ben lungi dall’essere definitivamente risolto, in quanto la legge n. 898/1970 sul divorzio non prevedeva in alcun modo sulla questione relativa all’assegnazione della casa familiare, limitandosi ad affermare che “l’affidamento e i provvedimento riguardanti i figli avranno come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale degli stessi”. Come era facilmente prevedibile, la mancanza di una disciplina espressa dava luogo ad un vivace contrasto giurisprudenziale5, “sanato” solo con un tardivo intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte6, con cui si ammetteva che il giudice, anche nei giudizi di scioglimento del matrimonio, potesse assegnare la casa familiare, con gli stessi criteri impiegati nella fase relativa alla separazione. Pochi giorni prima era intervenuto, nello stesso senso, anche il legislatore, che, con la legge n. 74/87, di riforma dell’istituto del divorzio, aveva previsto espressamente tale potere.

Peraltro, un’ulteriore lacuna era stata espressamente sanata con la nota legge n. 392 del 1978, nella quale veniva prevista la possibilità per l’assegnatario della casa familiare, privo della titolarità del diritto personale di godimento, di subentrare ex lege nel contratto di locazione.

L’ultima questione, relativa all’assegnazione della casa familiare nell’ipotesi di disgregazione della famiglia di fatto, dalla cui compagine fossero nati figli naturali, fu risolta dalla Corte Costituzionale con la pregevole sentenza n. 166 del 19987. In essa la Corte, ritenendo infondata la questione di legittimità costituzionale, sottolineò che, all’art. 30 Cost., è previsto l’obbligo, per i genitori, di “mantenere, istruire ed educare” la prole. L’obbligo di mantenimento, come correttamente rilevato dalla Corte, consiste anzitutto nell’assicurare ai figli l’habitat domestico, che è costituito dal “centro degli affetti, interessi e consuetudini di vita”, indispensabile per la crescita serena e lo sviluppo della personalità del figlio, indipendentemente dal suo status.

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Da ciò conseguiva la possibilità per il giudice di assegnare la casa familiare anche in tale ipotesi.

La materia, che, almeno a livello legislativo, risultava – come si è visto – abbastanza disorganica, è oggi invece disciplinata in modo generale e sistematico8 dalla legge 54 del 2006, nota come legge sull’affidamento condiviso, che ha espressamente previsto la sua applicabilità “anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”.

Altra novità positiva della legge di riforma è rappresentata dall’introduzione dell’art. 155 quater c.c., che reca una disciplina relativa all’assegnazione della casa familiare, in modo organico, sebbene una parte della dottrina ritenga che, proprio nella disciplina della casa familiare, si riscontrino le maggiori incongruenze della nuova normativa, tanto che si è sottolineato come “la disciplina dell’assegnazione della casa familiare rappresenti, probabilmente, il meno felice degli aspetti della riforma”9.

L’insoddisfazione della dottrina è principalmente relativa al problema degli interessi protetti dalla norma relativa all’assegnazione della casa familiare. Il novellato art. 155 quater c.c., al primo comma, prevede che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”. In tale norma, come è chiaro prima facie, l’interesse protetto10

sembra essere solo quello dei figli, ma, in primo luogo, il termine “prioritariamente”11 (a dire il vero, molto simile alla precedente espressione “spetta di preferenza”) non sembra chiarire in modo definitivo quale sia la posizione del legislatore, relativamente alla possibilità di assegnare la casa

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coniugale anche al coniuge debole12, in assenza di figli. La questione sarebbe ulteriormente complicata dal riferimento alla “regolazione dei rapporti economici tra i genitori”, che potrebbe far ritenere che il giudice debba valutare, nell’assegnare la casa familiare, anche la posizione di “debolezza” di un coniuge, rispetto all’altro. Si teme, in sostanza, che la mancanza di una precisa presa di posizione da parte del legislatore potrebbe autorizzare la giurisprudenza a soluzioni finora non del tutto risolte.

Ci si riferisce al problema dell’assegnazione della casa familiare al coniuge debole, in assenza di figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti. La questione ha dato luogo ad un acceso dibattito, che costituisce spunto di grande interesse, poiché la sua soluzione consente di evidenziare quali siano gli interessi effettivamente protetti nella disciplina della casa familiare.

Il dibattito era nato fin dalla prima formulazione dell’art. 155 c.c., come introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia, poiché l’affermazione per cui la casa spettasse “di preferenza” al coniuge affidatario aveva legittimato parte della giurisprudenza a ritenere che il giudice potesse prendere in considerazione anche altri interessi, oltre a quelli relativi ai figli13. La Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite14, precisava tuttavia che l’art. 155, comma 4°, c.c. dovesse ritenersi “norma eccezionale”, che privava il proprietario del proprio diritto reale, esclusivamente a tutela dell’interesse della prole minorenne “rispetto alla quale la ratio della preferenza legislativa per il suo mantenimento nella casa familiare risulta chiarissima, in relazione alle finalità di assicurare una pronta e conveniente sistemazione dei minori con

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l’affidatario, di impedire che essi, oltre al trauma della separazione dei genitori, abbiano a subire anche quello dell’allontanamento dall’ambiente in cui vivono”. La questione trovava, per così dire, nuovi spunti, dopo l’emanazione dell’attuale testo dell’art. 6, comma 6°, della legge sul divorzio, in cui, dopo che si era ribadito che la casa doveva essere assegnata di preferenza al coniuge affidatario, si precisava però che “ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole”. Ciò autorizzava una parte, anche se minoritaria, della giurisprudenza15 a ritenere che fosse ormai possibile prendere in considerazione, oltre agli interessi dei figli, anche quelli del coniuge debole, ed assegnare a quest’ultimo la casa familiare in assenza di prole minorenne(o maggiorenne non autosufficiente). La questione veniva nuovamente affrontata a Sezioni Unite dalla Suprema Corte16, che risolveva il conflitto, specificando nuovamente che l’unico interesse tutelato dal legislatore era costituito da quello dei figli, mentre non era possibile assegnare la casa al coniuge privo di diritto reale, in assenza di figli. Inoltre, si precisava e si ribadiva che la locuzione “spetta di preferenza” dovesse essere riferita non all’assegnatario, ma allo stesso provvedimento di assegnazione, con la conseguenza che l’alternativa all’assegnazione della casa al coniuge affidatario “non consiste nell’assegnare la casa al coniuge che di tale qualifica sia privo, ma nella possibilità di non emettere il provvedimento (..) e di lasciare quindi l’immobile nella disponibilità del coniuge proprietario o titolare di altro diritto di godimento”17.

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Ricordando incidentalmente come, nonostante il chiaro orientamento della Suprema Corte, fatto proprio anche dalla Corte Costituzionale18, alcune sentenze abbiano sporadicamente ritenuto di poter assegnare la casa al coniuge senza figli19, la questione sembra oggi ancora non completamente chiarita, se si guarda superficialmente il tenore letterale dell’art. 155 quater c.c. In merito va osservato che, in primo luogo, la locuzione “prioritariamente” non sembra porre nessun nuovo problema, relativo all’individuazione degli interessi rilevanti; anzi, sembra autorizzare a ritenere inalterate20 le

stesse conclusioni a cui era giunta la giurisprudenza di legittimità.

Inoltre, avendo la legge sull’affidamento condiviso...

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