L'aleatoria aleatorietà del contratto di associazione in partecipazione con esclusivo apporto di lavoro

AutoreAngelica Riccardi
Pagine289-306

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La diffusione di rapporti di associazione in partecipazione con conferimento di prestazioni lavorative che si sta registrando negli ultimi anni, più che verso l’auspicata «nuova civiltà del lavoro» che attraverso l’elevazione del grado economico e sociale del lavoro avrebbe dovuto «schiudere irrevocabilmente la porta a futuri, ma non lontani e sempre più vasti rapporti associativi fra imprenditori e prestatori di lavoro»1, si muove spesso verso la “nuova barbarie giuridica” dell’approvvigionamento di forza lavoro al di fuori dell’apparato di tutele predisposto dall’ordinamento.

Il discessus per aggirare la normativa posta a protezione del lavoro subordinato è quanto mai commodus: l’associazione in partecipazione trova la sua disciplina specifica in una manciata di norme del codice civile che fanno di questa tipologia contrattuale una “zona franca” per l’elusione dei vincoli connessi allo status di prestatore di lavoro2, integrando a volte un vero e proprio negozio in frode alla legge3.

Possono tuttavia darsi ipotesi nelle quali all’esclusione del lavoro subordinato possa avere interesse lo stesso lavoratore (L. Spagnuolo Vigorita, L’associazione: una nuova frontiera del lavoro subordinato?, in Mass. giur. lav., 1988, pp. 423 ss.).

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Per una sorta di eterogenesi dei fini, uno schema contrattuale squisitamente commerciale, per il quale nella previgente disciplina codicistica non era nemmeno prevista la conferibilità di prestazioni lavorative4, trova un inedito sviluppo quale mezzo di provvista di lavoro.

Il contratto di associazione in partecipazione, di per sé caratterizzato da una indubbia “nebulosità” che fa sì che a tutt’oggi ancora si discuta del suo inquadramento giuridico5, diventa ancora meno perspicuo per l’uso distorto che se ne fa quale equivalente funzionale del contratto di lavoro subordinato6.

Il codice civile vigente, nella definizione dell’associazione in partecipazione, non contiene invece alcuna «prescrizione delimitativa in ordine all’oggetto dell’apporto» (L. Spagnuolo Vigorita, Lavoro subordinato e associazione in partecipazione. Contributo alla qualificazione dei contratti, in Riv. dir. civ., 1965, I, p. 374; riprendendo un’osservazione di G. E. Colombo, Associazione in partecipazione, cointeressenza, contratto di lavoro subordinato, in Riv. dir. comm., 1962, II, p. 335), e l’ammissibilità di prestazione di opere, anche in regime di subordinazione, quale oggetto del conferimento, è sostenuta da tempo dalla dottrina assolutamente dominante: v. G. Ferri, Associazione in partecipazione (voce), in Noviss. Dig. it., Utet, Torino, 1958, vol. I2, p. 1435, sull’obbligazione dell’associato «alla prestazione della sua attività, naturalmente sotto la direzione dell’associante»; G. M. Brunetti, Associazione in partecipazione e rapporto di lavoro subordinato, cit., p. 579, secondo il quale, essendo l’associante il dominus dell’impresa, l’associato non potrà effettuare le sue prestazioni di lavoro se non «alle dipendenze e sotto la direzione dell’associante»; P. Guerra, Criteri di distinzione tra rapporto associativo e rapporto di lavoro, in Mass. giur. lav., 1952, p. 75, che afferma espressamente che «la presenza dell’elemento subordinazione non possa di per sé escludere la sussistenza di un rapporto sociale».

La conferibilità di lavoro costituisce oramai un acquis giurisprudenziale, v., tra le pronunce più risalenti, Cass., 18 maggio 1956, n. 1466, in Giust. civ., 1956, I, p. 1383; Cass., 22 ottobre 1957, n. 4047, in Rep. giust. civ., 1957, voce Associazione in partecipazione, n. 1; Cass., 2 novembre 1959, in Giur. it., 1960, I, p. 796; Cass., 21 luglio 1960, n. 2039, in Giust. civ., 1961, I, p. 88.

A fronte di alcuni dati che militano a favore della natura associativa del contratto di associazione in partecipazione, quali la comunanza del risultato economico cui il contratto è diretto (G. Ferri, Associazione in partecipazione (voce), cit., pp. 1435 ss.) e la qualificazione dello stesso «sul piano causale dall’esercizio in comune di un’attività economica» in vista di un «interesse comune» ad associato e associante (E. Ghera, Diritto del lavoro16, Cacucci, Bari, 2006, pp. 57, 58; nello stesso senso F. Ferrara jr. e F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 219 ss.; G. De Semo, Contratto di lavoro e associazione in partecipazione, cit., p. 284), elementi diversi depongono per la sua ascrizione alla species dei contratti di scambio, quali la definizione espressa negli artt. 2549 e 2554 c.c. dell’apporto quale “corrispettivo” della partecipazione (R. Corrado, La nozione unitaria del contratto di lavoro, Utet, Torino, 1956, p. 210) e l’assenza nell’assetto negoziale de quo di una «qualsiasi influenza sulla gestione» dell’associato (G. E. Colombo, Associazione in partecipazione, cointeressenza, contratto di lavoro subordinato, cit., p. 332). La nebulosità dell’istituto in questione è tale, peraltro, da far circondare di “cautele” le definizioni proposte, per cui si riconosce dagli stessi teorizzatori della ricostruzione come contratto associativo, che, sebbene la sostanza giuridica dell’associazione in partecipazione sia quella dei contratti associativi, «la struttura è quella propria dei contratti di scambio» (G. Ferri, Associazione in partecipazione (voce), in Dig. Disc. Priv. – Sez. Comm., Utet, Torino, 1987, vol. I, p. 509), o, sullo schieramento opposto, che a differenza dei comuni contratti di scambio, associante e associato «mirano a un fine economicamente comune: la produzione di utili da dividere» (G. De Ferra, Associazione in partecipazione. I) Diritto commerciale (voce), in Enc. giur. Treccani, Treccani, Roma, 1988, vol. III, p. 1).

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Punto di precipitazione pratica di tale scarsa perspicuità è la distorsione del requisito dell’aleatorietà, tipico di questo schema negoziale, che si registra quando l’associato conferisca esclusivamente prestazioni lavorative, distorsione che si inserisce peraltro nel quadro della generale confusione sulla stessa qualificazione del contratto di associazione in partecipazione segnalata da tempo dalla migliore dottrina7.

L’elemento del rischio, come noto, costituisce uno degli elementi essenziali e caratterizzanti del contratto di associazione in partecipazione, sebbene si tratti di un modello negoziale ad alea limitata8 poiché l’associato, ex art. 2553 c.c., non può subire perdite superiori al «valore del suo apporto».

L’aleatorietà quindi rappresenta – o, meglio, dovrebbe rappresentare – il primo elemento distintivo del contratto in esame rispetto a tipologie contrattuali commutative, tra cui quella del lavoro subordinato.

Anche nei casi di associazione in partecipazione con esclusivo conferimento di lavoro, infatti, lo schema negoziale è caratterizzato dall’incertezza connaturale alla situazione iniziale, per cui l’obbligo dell’associante «si sostanzia nell’attribuzione del diritto alla partecipazione agli utili […] che assumerà per l’associato il contenuto di un concreto vantaggio economico solo se gli utili si produrranno»9 –, mentre il contratto di lavoro, sin dalla sua prima completa teorizzazione, è stato qualificato come «essenzialmente commutativo»10, commutatività che non viene meno in caso di forme retributive collegate ai risultati dell’impresa, in quanto la partecipazione agli utili nel lavoro subordinato «non può mai essere intesa anche come partecipazione ai rischi, ma solamente come correttivo della mercede, di cui un minimo deve essere sempre certo»11, e, alla base, tali sistemi retributivi non

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determinano una sostanziale trasformazione o modificazione delle obbligazioni fondamentali delle parti

12.

Di fatto però, soprattutto nelle aule giudiziarie, l’aleatorietà viene sistematicamente svuotata nel suo ruolo di fattore differenziale in caso l’apporto sia costituito da prestazioni lavorative, in via diretta, attribuendo valore qualificante a elementi diversi (e segnatamente alle modalità di svolgimento del lavoro), o in via mediata, con il riconoscimento della compatibilità con lo schema dell’associazione in partecipazione della pattuizione di una quota fissa comunque garantita all’associato o del calcolo della partecipazione sul fatturato o sugli incassi anziché sugli utili.

Sull’aleatorietà quale basilare criterio distintivo dell’associazione in partecipazione rispetto al rapporto di lavoro è incentrata la posizione più rigorosa.

L’elemento della «certezza del guadagno» è configurato come “decisivo” ai fini di tale differenziazione, rilevandosi come nei rapporti associativi l’assunzione del rischio «non può mai essere esclusa», mentre la partecipazione agli utili prevista per il rapporto di lavoro – paradigma retributivo da tempo conosciuto nel nostro ordinamento ex art. 2099, comma 3°, c.c. -, costituisce un semplice sistema di calcolo della sinallagmatica obbligazione datoriale consentito entro precisi limiti13.

La partecipazione agli utili prevista in caso di lavoro subordinato rappresenta, nella specie, una semplice modalità di calcolo (determinazione per relationem) di un elemento contrattuale, la retribuzione, la cui natura e regolamentazione (in primis quanto all’applicazione degli ordinari principi costi-

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tuzionali in materia) rimangono immutate14, e per la quale, soprattutto, viene esclusa qualunque partecipazione in senso proprio ai rischi dell’attività datoriale15.

La distanza rispetto alla posizione dell’associato, che è invece connotata dalla partecipazione «al rischio dell’impresa, potendo non conseguire utili di sorta»16, è immediatamente evidente17.

Alla base, com’è stato lucidamente osservato, «la diversa funzione del tipo rispetto al rapporto nominato qualifica in modo particolare il diritto del lavoratore al compenso»: mentre la retribuzione, anche di tipo partecipativo, rappresenta un «mero corrispettivo di un servizio reso nell’esclusivo interesse della controparte», la quota spettante all’associato è oggetto di «un diritto che...

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