La liquidazione degli usi civici e il controllo sui vincoli alla circolazione

AutoreFerdinando Parente
Pagine219-230

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Nella società contemporanea, in rapido mutamento, l’eterogeneità di contenuto del sistema normativo trova giustificazione, oltre che nel pluralismo ideologico e culturale del contesto sociale, anche nella stratificazione storica delle fonti1.

Sull’assunto della storicità del pluralismo delle fonti, gli usi civici, qualificati pure servitù civiche o ademprivi2, integrano un residuo di antiche figure di diritti collettivi3 e possono essere definiti come diritti sui generis, a

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contenuto reale limitato, tendenzialmente perpetui, inalienabili, inusucapibili ed imprescrittibili4, spettanti ad una collettività di persone su beni di appartenenza pubblica o privata per il perseguimento di scopi di interesse generale e sociale, specificamente definiti: ad esempio, lo scopo di legnatico (raccolta di legna), fungatico (raccolta di funghi), erbatico (raccolta di erba), ghiandatico (raccolta di ghiande)5.

Nell’uso civico, quindi, il nucleo di realità del contenuto del diritto è conformato a poteri di godimento diversamente delimitati, per qualità e quantità, rispetto alle facoltà riconosciute al titolare della situazione reale di proprietà (art. 832 c.c.)6.

Nella raffigurazione delle originarie fonti nazionali di riordino della materia (l. 16 giugno 1927, n. 1766, di conversione del r.d.l. 22 maggio 1924, n. 751; r.d. 26 febbraio 1928, n. 332; l. 26 febbraio 1930, n. 1078), il diritto di

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uso civico è accordato al singolo uti civis, quale membro di una collettività, non come soggetto dell’ordinamento dotato di aseità7.

Questa rappresentazione, nell’àmbito della distinzione tra gli usi civici su terreni «allodiali», appartenenti a privati, e gli usi civici su terre di proprietà demaniale, comunale o di altri enti collettivi, facenti parte del «demanio universale o comunale»8, appare decisiva per la ricostruzione dei regimi di circolazione dei fondi gravati e per la qualificazione giuridica del fenomeno9.

Infatti, nella prima forma di manifestazione del gravame, quella dell’uso civico in re aliena, la situazione soggettiva del titolare sembra conformata al modello del diritto reale di godimento su cosa altrui, caratterizzato dall’inerenza al bene, dal diritto di seguito, dall’assolutezza e dalla dimensione erga omnes del sistema delle tutele.

Nella tipologia dell’uso civico in re propria, su beni comunali o di altri enti esponenziali, invece, l’esercizio del potere appare forgiato come «estrinsecazione del diritto dominicale della popolazione o dell’ente cui i beni appartengono»10 e il diritto, che forse ha natura di demanio civico11, sembra

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rivestire la forma di comunione senza quote12. In effetti, negli usi civici su beni pubblici non possono sussistere quote di contitolarità, in quanto il diritto di godimento resta in capo alla comunità, che ne riceve la fruizione dall’ente esponenziale; né può prefigurarsi un potere soggettivo di chiedere lo scioglimento. Il legame che unisce i partecipanti alla comunità, quindi, è di tipo solidaristico e configura una fattispecie di comunione impropria, che difetta della ripartizione in quote13. È basilare, allora, riconoscere all’uso civico in re propria la natura di comunione atipica, ovvero senza quote, avente ad oggetto diritti soggettivi, ma la cui rappresentanza è affidata all’ente esponenziale.

Il problema dell’allogazione del diritto di uso civico su terreno privato all’interno di un tipo peculiare di diritto reale di godimento su cosa altrui non risulta di soluzione agevole, né lineare14. Una prima configurazione concettuale può far leva sull’assimilazione della figura al diritto di uso delineato dall’art. 1021 c.c., che attribuisce al titolare il potere di servirsi della cosa e, se fruttifera, di raccoglierne i frutti, nei limiti dei bisogni propri e della famiglia15. L’assimilazione, tuttavia, è preclusa dall’immanenza della «temporaneità»del diritto dell’usuario, che contrasta con la tendenziale «perpetuità» degli usi civici e con la loro vocazione alla trasmissione generazionale. Neppure la circostanza che l’uso civico possa essere oggetto di liquidazione ne consente l’assimilazione al diritto d’uso di matrice codicistica. Infatti, la liquidazione non può essere invocata a riprova di una presunta temporaneità

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dell’uso civico, la quale è rigettata dall’argomento della perpetuità assiomatica del diritto16.

Altra differenza tra l’uso ex art. 1021 c.c. e l’uso civico è da ravvisare nell’esclusivitàdella fruizione dell’usuario, che si manifesta nel potere di estromettere altri dal godimento, condizione negata al fruitore dell’uso civico, il quale, come tutti i componenti della comunità locale, non beneficia in via esclusiva di una utilità del bene.

Infine, la dissonanza di contenuto delle due situazioni di realità è indice di un’ulteriore distonia tra il diritto di uso e il diritto di uso civico: il primo ha contenuto generale, delimitato soltanto dal rispetto della destinazione economica del bene (art. 1026 c.c. in relazione all’art. 981 c.c.) e dai bisogni del titolare, secondo la sua condizione sociale (art. 1021 c.c.), e legittima l’usuario ad ogni attività funzionale alla migliore realizzazione degli interessi suoi e dei familiari17; il secondo, all’opposto, è dotato di un contenuto predefinito, che attribuisce al titolare poteri circoscritti alla fruizione di una o più utilità peculiari, compatibili con la preservazione dell’assetto del territorio.

Anche la potenziale assimilazione dell’uso civico alla servitù prediale, sull’assunto della proclive perpetuità di entrambi i diritti, va respinta a ragione della disomogeneità delle strutture interne e degli assetti funzionali delle due categorie di situazioni soggettive. Nell’uso civico, infatti, risulta deficitario un requisito essenziale della figura della «servitù prediale»: il «peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario» (art. 1027 c.c.); manca, dunque, la relazione di predialità tra il fondo servente e il fondo dominante, imprescindibile per la connotazione del diritto di servitù, relazione che non può essere surrogata dalla raffigurazione dell’uso civico come fondo dominante sui restanti terreni della collettività, che difetta dell’identificazione specifica del fondo prevalente18.

Infine, neppure la rappresentazione dell’uso civico come servitù personale, in cui l’utilità è riferita ad un soggetto, anziché ad un fondo, sembra plausibile, considerato che nell’uso civico l’utilizzazione del bene non si configura come limite esterno al diritto di proprietà, alla stregua di una servitù prediale, ma si atteggia come manifestazione di una peculiare situazione di realità, sia pure limitata, autonoma ed interna al diritto di proprietà privata, «secondo un criterio di appartenenza collettiva»19.

L’esigenza di superare le antitesi, nel procedimento di qualificazione giuridica dell’istituto, rafforza la prospettiva di ricostruire l’uso civico su terre private come diritto in re aliena atipico, forse in origine sorto da una consue-

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tudine recepita nel nostro ordinamento20, connotato da un regime normativo complesso ma unitario, in cui i caratteri «tipici» della realità (l’inerenza, l’immediatezza, il diritto di seguito, l’assolutezza), che inibiscono al potere di autonomia privata di compromettere il nucleo essenziale della situazione reale (art. 1322 c.c.), coesistono con il contenuto «atipico» del diritto. Da questo punto di vista, la non esclusività soggettiva del diritto sul bene e la specificità del suo contenuto concorrono a corroborare l’atipicità dell’uso civico, senza stravolgere il tradizionale principio del numerus clausus dei diritti reali, ma attualizzandolo con l’apporto dell’approccio settoriale21.

  1. Nel sistema della l. n. 1766 del 1927, il riordino degli usi civici è modulato su una procedura tortuosa, affidata alla direzione dei commissari per la liquidazione, che ha inizio con la denunzia delle terre gravate e trova ulteriore svolgimento nella verifica, nell’accertamento e nella liquidazione dell’uso, nonché nell’eventuale legittimazione dei terreni occupati abusivamente22. Il sistema normativo delle origini, dunque, è finalizzato all’accertamento e alla liquidazione tempestiva degli usi civici (artt. 4-8, l. n. 1766 del 1927). L’accertamento integra un’attività di carattere amministrativo23 volta a verificare l’esistenza degli usi: la prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, purché l’esercizio dell’uso non sia cessato anteriormente al 1800, ipotesi nella quale è prescritta l’idoneità della sola prova documentale (art. 2, l. n. 1766 del 1927).

In una prospettiva diacronica, tuttavia, le operazioni di liquidazione hanno assunto modalità tardigrade a motivo di una serie di concause, tra cui il decentramento regionale delle funzioni amministrative, realizzato con il d.P.R. 24 luglio 1977, n. 61624, che ha indotto le regioni, ormai affidatarie prioritarie delle procedure di liquidazione e di legittimazione degli usi civici, a legiferare per l’attuazione della normativa nazionale25.

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Anche la Regione Puglia ha provveduto ad integrare la materia attraverso interventi legislativi di settore (l. 28 gennaio 1998, n. 7, modificata dalla l. 4 maggio 1999, n. 17, dalla l. 20 dicembre 1999, n. 35, dalla l. 31 maggio 2001, n. 14, dalla l. 5 dicembre 2001, n. 32, dalla l. 4 agosto 2004, n. 14, dalla l. 28 giugno 2007, n. 19), mirati a razionalizzare le procedure di liquidazione.

In chiave sinottica, dal punto di vista della conformazione del regime dei vincoli e dei controlli sui limiti alla circolazione, la condizione delle terre private, gravate da uso civico in re aliena, è poliedrica.

Nell’ipotesi di uso civico non ancora liquidato, trattandosi di terreno di dominio privato, il bene gravato, per l’assenza di vincoli normativi alla circolazione, deve considerarsi liberamente alienabile, sia a titolo oneroso che gratuito26, ma limitato nel godimento dall’esistenza dell’uso.

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