Bona fides, aequitas e ne bis in idem

AutoreAurelio Arnese
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In una recente pronuncia della terza sezione della Corte di Cassazione, la n. 5360 del 5 marzo 2009, a proposito della rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di giudicato esterno in sede di giudizio di legittimità, si legge: “Com’è noto, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico ed uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nella sentenza che riveste autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, e ciò anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito scopo ed il petitum del primo”.Ed ancora, “il giudicato esterno formatosi a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione è rilevabile anche d’ufficio, non solo quando emerga dagli atti prodotti nei giudizi di merito, ma anche nel caso in cui si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata”1, perché “il giudicato non attiene al fatto, ma esprime la regola giuridica applicabile al caso concreto: regola il cui accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma mira ad evi-

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tare che si formino giudicati contrastanti e perciò corrisponde ad un preciso interesse pubblico”, come hanno rilevato le Sezioni Unite, nella sentenza n. 26482 del 17 dicembre 2007: decisione nella quale si afferma pure che il giudicato va ricondotto “nella sfera delle questioni di diritto”, l’interesse al “suo rispetto” ha “natura pubblistica” e il relativo “accertamento” va assimilato “alla individuazione della norma di diritto applicabile al caso in esame”2.

Sicché, “ove il giudicato esterno si sia formato a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione, i poteri cognitivi del giudice di legittimità possono pervenire alla cognizione della precedente pronuncia anche mediante quell’attività d’istituto (relazioni preliminari ai ricorsi e massime ufficiali) che costituisce corredo della ricerca del collegio giudicante, in tal senso deponendo non solo il principio generale che impone di prevenire il contrasto tra giudicati ed il divieto del ne bis in idem, ma anche il rilievo secondo cui la conoscenza dei propri precedenti costituisce un dovere istituzionale della corte”. Orbene, nel suo argomentare, la Suprema Corte menziona uno dei principi basilari del diritto: il ne bis in idem.

Il principio, assai noto, è una “antica regola” del “diritto procedurale romano”, diventata “massima giuridica”: una norma così risalente da non potersene determinare l’origine3. Ed è un precetto che “non è patrimonio dei soli giuristi” – ripetuto com’è, a mo’ di “slogan”4, anche dai retori5: un divieto tanto radicato6, “contenuto nel motto actum – ne agas (‘non fare ciò che è stato già fatto’)”, da potersi rintracciare spesso nella letteratura antica: come

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rileva il Quadrato, in un saggio di qualche anno fa7, nel dedicarsi all’analisi di un testo molto importante di Gaio, D.50.17.57 (18 ad ed. prov.), in cui il giurista romano, a proposito del “creditore che agisca una seconda volta de eadam re, ripetendo un richiesta già dedotta in giudizio”, afferma: bona fides non patitur, ut bis idem exigatur8. Il cuore della riflessione gaiana, di grande rilevanza e originalità, è racchiuso nell’espressione bona fides non patitur. Con abile ricorso ad un figura retorica, la prosopopea, la bona fides viene personificata. È un espediente, accompagnato anche da un attento uso del linguaggio e della sintassi – “lo sferzante non patitur, il rapido succedersi delle parole, in una sequenza carica di tensione, percepibile soprattutto nel gioco dialettico del bis e dell’idem”, nell’utilizzazione del “verbo exigere che, rispetto all’agere della formula tradizionale, esprime in modo più marcato l’aspetto della pretesa”9 – che consente a Gaio di ottenere l’effetto di accrescere l’“intensità” del principio, di amplificare la portata della massima, già analizzata nei suoi molteplici aspetti in Inst. 4.106-10810, dove il maestro antonino ne fa risaltare “l’operatività e l’efficacia”, esaminando le ipotesi nelle quali “opera ipso iure (e la exceptio è inutile: supervacua est)” e quelle in cui l’ “exceptio necessaria est”11. Nel dettato di D.50.17.57, secco, stringato, tipico di una regula iuris12, è di straordinario rilievo il collegamento del precetto alla bona fides: una costruzione grazie alla quale il divieto risulta “rafforzato”, trovando un fondamento oltre che giuridico anche etico13. Ed affiora pure un legame con l’aequitas: un dato da non trascurare. Nell’aequitas, infatti, può riconoscersi l’elemento al quale si deve il passaggio, graduale, alla bona fides da una fides arcaica, ingabbiata com’era nella

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rigidità del fit quod dicitur14: “una fides senza aequitas”15, quale emerge da un celebre brano di...

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