Identità comunitaria e cittadinanza partecipazione e mediazione: la suggestione di bantia

AutoreSebastiano Tafaro
Pagine375-388

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  1. Guardando retrospettivamente alla storia del Mediterraneo nell’antichità, fino alle soglie dell’età moderna, mi sembra che il tratto principale appaia la prevalenza del diritto romano; il quale, alla conclusione di un lunghissimo arco temporale (il cui punto di partenza collocherei al VI sec. a.C.) fece in modo che ogni abitante si riconoscesse e si identificasse nel diritto romano.

    Persino coloro che erano partiti per sovvertire la società e l’ordine retto dal diritto romano alla fine riconobbero l’indispensabilità di esso. Meraviglia, ad esempio, che Attila, finora noto come devastante distruttore dell’Impero romano e della romanità, invece finí per perseguire l’idea (che era stata alla base dell’impero romano) di approdare ad una costruzione politosociale unitaria, cementata da un diritto ugualmente unificante: il diritto romano.

    Questo mi sembra essere il segno dell’attitudine del diritto romano a cogliere snodi essenziali della vita sociale e della contestualità dei tempi, articolandosi in proposizioni non ‘chiuse’ o ‘provinciali’, bensí di respiro ampio ed idonee a proiettarsi in una dimensione che travalicava i limiti temporali della loro enunciazione.

    Questa mia convinzione poggia su lunghe ed approfondite analisi, per le quali rinvio alla copiosa letteratura sui rapporti tra romanità e mondo antico.

    In questa sede vorrei richiamare l’attenzione su alcuni punti, che a mio avviso lasciano intravedere le modalità attraverso le quali il diritto romano seppe innestare un processo di adeguamento progressivo e spontaneo delle

    * Riproduco qui, con variazioni, il testo della comunicazione tenuta il 29 maggio 2010 ad Istambul durante il Convegno Imperi e Migrazioni. Leggi e Comunità. Da Roma a Costantinopoli a Mosca, 29-30 maggio 2010, organizzato dall’Università di Galatasaray, Istambul, presso l’Università di Galatasaray e presso il Palazzo Topkapi.

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    comunità che via via si confrontarono con esso, sino a diventare elemento d’identità comune.

    Questo, a mio avviso, come spero di potere chiarire, fu dovuto non soltanto alla capacità del diritto romano di proporsi come modello ‘superiore’, ma anche alla sua sensibilità ed apertura nel cogliere spunti e suggestioni provenienti da altre realtà.

  2. In proposito ritengo che, nell’opinione dominante, si sia troppo enfatizzato il ruolo egemonico e, secondo alcuni, persino sopraffattore del diritto romano, che si sarebbe sostituito ai diritti delle comunità politiche e/o territoriali assoggettate all’imperium di Roma. Rare sono le voci sostenenti che potrebbe essere accaduto l’inverso: cioè, che potrebbe essersi verificato l’assorbimento da parte dei Romani di idee ed istituti formatisi autonomamente presso altre comunità.

    Il rinvio alla fides dapprima nei rapporti internazionali poi anche nella negoziazione tra privati e la nascita del ius gentium costituirono pilastri esemplari nella recezione di normative formatesi in altri ordinamenti ed adattate all’uso del diritto romano, soprattutto ad opera della interpretatio prudentium e dell’edictum praetoris. È stato affermato che la fides, introdotta proprio per disciplinare i rapporti con gli ‘altri’, forní un criterio di comportamento fecondo e idoneo ad adeguarsi alla specificità del ‘reale’. Essa portò l’equità ed il giusto nel ius e conobbe una progressiva espansione, tanto che via via tutte le obligationes furono improntate sulla ‘buona fede’. Il concetto di fides non era romano, bensí mediterraneo, concretantosi in normativa “verosimilmente piú antica della stessa città, in quanto ordinamento unitario ed accentrato”. Di conseguenza fides era un concetto di larga condivisione, cui si ricorreva sia nel diritto internazionale sia nel diritto privato della città: “Ciascuna delle due parti contraenti promette sulla propria fede dhmosia pistei = publica fide: ossia sulla fede che lega la collettività al rispetto delle convenzioni liberamente stipulate) l’assistenza al cittadino dell’altra parte, per la protezione di interessi nascenti da negozi di diritto privato. I negozi del mercante cartaginese in zona di influenza romana, e del mercante romano in zona di influenza cartaginese, escono dalla sfera dei rapporti ignorati dal diritto dello stato, per entrare in quella dei rapporti che l’autorità dello stato rende coercibili. L’attenzione del lettore va qui richiamata sul fatto che la fides va considerata come nucleo normativo sia del trattato fra le città, sia del contratto di diritto privato. Quest’ultimo, una volta entrato nella sfera della coercibilità statuale, non cessa di essere configurato come rapporto fondato sul dovere che ha ogni galantuomo di rispettare gli impegni liberamente consentiti; rivela cioè una struttura normativa atteggiantesi in maniera analoga al rapporto liberamente consentito fra due stati”1. L’accordo, cui seguirono altri con differenti comunità, era, evidentemente, stato raggiunto perché fondato su idee circolanti nel Mediterraneo e, per ciò stesso, facilmente condivisibili.

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    Dunque, lo zoccolo o uno degli zoccoli della normativa del diritto romano concernente il commercio giuridico, che investí anche il diritto di famiglia (specialmente riguardo alla potestà del pater familias) poggiava su un principio generale riconoscibile come proprio dalle comunità del Mediterraneo, le quali, anzi, lo avevano elaborato ancor prima del diritto di Roma.

    D’altra parte la fides, che era categoria sia di diritto pubblico sia di diritto privato, consentí di superare al meglio le strettoie della formalità negoziale (diversa da comunità a comunità), andando oltre il rispetto del dichiarato (fit quod dicitur), per dare tutela a ciò che, nella diversità dei linguaggi e delle regolamentazioni specifiche, si era inteso realizzare (age quod agitur, vale a dire: sia diritto quello che in realtà è stato il contenuto concordato del negozio, secondo le normative proprie ai contraenti o comunque da essi avute presente al momento nella negoziazione), erano di percezione e di valenza generale. Esse contribuirono a dare al diritto romano il carattere di universalità e fecero sí che, pur nelle differenze di cittadinanza, lo straniero in Roma e dovunque si applicasse il diritto romano potesse sentirsi protetto e sicuro, in quanto avrebbe avuto lo stesso trattamento che gli sarebbe stato accordato in patria.

    Si fondò su tale presupposto la creazione dello ius gentium che ebbe proiezioni internazionali e nazionali. In particolare, per i rapporti di diritto privato, consentí una efficace tutela processuale, che rimetteva al giudicearbitro (scelto dalle parti e, quindi, di loro fiducia) l’accertamento in giudizio delle eventuali pretese disattese, secondo un criterio di equità e di congruità.

    In tal modo chiunque poteva sentirsi rassicurato riguardo ai rapporti giuridici, ovunque li avesse contratti; tanto piú che anche nelle province si usò emanare un editto modellato sulla falsariga di quello emanato in Roma dai pretori, assicurando omogeneità e sicurezza nel trattamento del commercio giuridico.

    Qui è opportuno ricordare la differenza profonda esistente tra gli stati contemporanei e l’esperienza del mondo antico; in particolare del Mediterraneo.

    Da noi vige il principio della ‘territorialità’ del diritto: ogni Stato o ogni struttura sovranazionale sul suo territorio applica il proprio diritto in maniera totalizzante, che si traduce in una proiezione che esclude lo straniero e non contempla differenze per appartenenti a comunità diverse. Gli stranieri sono per lo piú esclusi dalla stessa fruizione del diritto e se si trovano nel territorio sono assoggettati ad identica ed unica normativa. Neppure le visioni piú profonde dell’uomo, come quelle religiose, consentono differenziazioni: cristiani, musulmani, buddisti, animisti che siano, sempre sono sottoposti allo ius loci.

    Nell’antichità non era cosí, poiché, per dirla con Capogrossi, “nel mondo antico vigeva in generale una concezione del diritto abbastanza diversa da quella che è oggi diffusa nella maggioranza degli ordinamenti statali moderni. Ad eccezione infatti che per i diritti politici, riservati ovviamente ai propri cittadini, vige in generale nello stato moderno il principio della territorialità del diritto. Questo significa che il diritto dello stato si applica a tutti coloro che vengono a trovarsi nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza … al contrario, nel mondo antico e particolarmente nel complesso

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    paesaggio delle poleis grecoitaliche, tende a prevalere un criterio opposto che si fonda sulla ‘personalità’ del diritto. Ogni individuo cioè è legato alla sua patria d’appartenenza e al diritto proprio di questa. Allorché egli si trovi nell’ambito di un’altra comunità politica, egli resta estraneo al diritto proprio di essa e, in teoria almeno, non ha la facoltà di utilizzarlo e di chiedere la protezione legale di cui fruiscono i cittadini di quest’ultima. In verità, almeno nel caso di Roma, ben presto si vennero elaborando diversi sistemi per fornire protezione legale agli stranieri, fossero essi garantiti o no da un trattato internazionale stretto con i loro stati”2.

  3. Quanto a Roma la conseguenza di ciò fu la creazione di un diritto che possiamo definire ‘aperto’, proprio perché basato su concetti condivisi. Esso contemplò l’accesso progressivo e omogeinizzante per gli stranieri. Al punto che quando nel 212 Antonino Caracalla estese la cittadinanza a tutti i subiecti dell’Impero compí un atto che dava riconoscimento formale ad una situazione già in atto, cioè l’uniformità, almeno nei tratti caratterizzanti, dell’esperienza giuridica soprattutto nell’area del Mediterraneo.

    Questo fu conseguenza dell’atteggiamento avuto dai Romani nei confronti degli stranieri. Il quale fu sempre fortemente influenzato dal modo con il quale l’espansione romana cominciò ad attuarsi.

    Invero i primi ‘stranieri’ in Roma provenivano da comunità spesso non dissimili da quelle delle tribù romane e comunque non...

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