L'istruzione probatoria nel processo ordinario e in quello del lavoro

AutoreGiovanna Reali
Pagine261-288

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Nei processi a cognizione piena l’istruzione probatoria è uno snodo essenziale per tutte le controversie che, non vertendo su questioni di puro diritto o non essendo risolvibili sulla base delle sole produzioni documentali, non possono essere decise subito, cioè senza l’assunzione delle prove, che, come tutti sanno, sono gli strumenti di cui il giudice si avvale per conoscere i fatti (direttamente o indirettamente) rilevanti per la decisione della lite1.

* Il presente scritto, che riproduce, con alcune lievi modifiche e integrazioni, la relazione presentata all’incontro di studio su «L’onere della prova e l’attività istruttoria nei diversi riti civili», svoltosi a Roma, per iniziativa del Consiglio superiore della magistratura, nelle giornate del 23-25 novembre 2009, è dedicato alla cara memoria di Franco Cipriani, grande e ineguagliabile Maestro di studi e di vita.

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L’accertamento della verità, cui è finalizzata l’attività istruttoria, postula il rispetto delle garanzie minime essenziali per la realizzazione di un processo giusto (o forse si dovrebbe dire, di un processo idoneo a “produrre” sentenze giuste). Ne deriva che la verità dei fatti, sia pure in quel senso relativo che è proprio di qualsiasi verità storica, pur rappresentando uno dei valori essenziali che concorrono a realizzare il giusto processo, è circoscritta nei confini posti dalle garanzie del diritto di azione e di difesa, del contraddittorio, della parità delle armi, della terzietà e imparzialità del giudice e della ragionevole durata. Di qui i vincoli che il giudice incontra nella ricerca del vero.

Un limite all’accertamento dei fatti viene proprio dall’esigenza di contenere il processo entro tempi ragionevoli. La rapida definizione delle liti, in quanto condizione per realizzare l’effettività della tutela giurisdizionale, corrisponde prima di tutto all’interesse della parte che chiede giustizia e poi all’interesse pubblico (che viceversa la legislazione tende sempre più, fors’anche a causa delle condanne che lo Stato italiano subisce per la violazione dell’art. 6 Cedu, a considerare prevalente)2.

A partire dal 1973, con la riforma del processo del lavoro, l’obiettivo della celerità è stato perseguito a livello legislativo primariamente puntando sul principio della concentrazione processuale e sulla previsione di un rigido regime di preclusioni, anche per quel che concerne le deduzioni probatorie. Sconfessato il sistema delineato dalla novella del 1950, fondato sulla libera deducibilità delle prove in primo grado e in appello, l’accertamento della verità deve fare i conti con il limite rappresentato dalla tempestività delle richieste istruttorie delle parti. Il giudice è infatti vincolato a decidere non soltanto iuxta alligata et probata partium, ma anche tenendo conto unicamente dei fatti e delle prove tempestivamente allegati (rectius, allegati nelle battute iniziali del giudizio di primo grado). L’analisi dell’istruzione probatoria nel processo ordinario e in quello del lavoro, quindi, non può non prendere le mosse dall’esame dell’attuale sistema di preclusioni istruttorie e dai principali problemi interpretativi e applicativi da esso sollevati.

Con riferimento al processo ordinario di cognizione, la riforma del 1990 ha regolato l’attività di deduzione probatoria sul modello (già sperimentato in termini ancora più rigorosi nel processo del lavoro) caratterizzato da un sistema di preclusioni (assertive e) istruttorie che maturano in limine litis, i cui unici correttivi sono rappresentati: a) dalla rimessione in termini (oggi prevista non più dall’art. 184 bis c.p.c., abrogato dalla legge n. 69 del 2009, ma dall’art. 153, comma 2°, c.p.c.)3; b) dai poteri istruttori d’ufficio (i quali, però, come è noto, rilevano maggiormente nel rito del lavoro, posto

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che nel processo ordinario sono esercitabili in via di eccezione nei soli casi previsti dalla legge)4.

Nel modello disegnato dai conditores del 1990 il principio di libertà è stato soppiantato da quello di concentrazione, il quale, se ha prodotto alcuni apprezzabili risultati sul piano di un più ordinato svolgimento del processo, non sembra avere invece inciso in modo significativo sulla sua durata5.

Rimane pertanto del tutto indimostrato che le preclusioni di per sé servano a sveltire i tempi della decisione, i quali, molto più realisticamente, sono ritmati dal numero delle cause che ciascun giudice ha sul proprio ruolo6. Va infatti pienamente condiviso l’insegnamento secondo cui la possibilità (non meramente teorica ma) concreta di decidere la causa già nella prima udienza (o in generale in qualsiasi momento del processo) sarebbe «più che sufficiente, di per sé, senza bisogno di preclusioni fissate dal legislatore, ad evitare che il convenuto, o le parti in genere, adottino strategie difensive dilatorie o comunque “attendiste”, tenendo volutamente da parte delle allegazioni o delle prove di cui già disporrebbero»7. Ne offrono una significativa conferma i procedimenti cautelari e camerali, i quali, pur non essendo caratterizzati da preclusioni, sono rapidi e concentrati8.

Il regime delle preclusioni previsto nel 1990 ha conosciuto due riforme, una nel 1995 e l’altra nel 2005. L’ultima novella, invece, che si deve alla legge n. 69 del 2009, ha inciso sulle preclusioni esclusivamente con riferimento al giudizio d’appello del processo ordinario, modificando l’art. 345 c.p.c. e stabilendo, sulla scia dei principi enunciati dalle Sezioni Unite9, il

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divieto di produrre nuovi documenti salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non averli prodotti nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

Nel sistema delineato dalla riforma del 1990 il legislatore aveva nettamente distinto, attraverso due udienze, la fase rivolta alla definitiva fissazione del thema decidendum e probandum, da quella diretta alla formulazione delle richieste istruttorie: la prima si svolgeva e si esauriva nell’udienza di trattazione, al cui interno un ruolo (sulla carta) di primaria importanza era affidato all’interrogatorio libero, non a caso previsto come adempimento obbligatorio10; la seconda aveva luogo nell’udienza successiva fissata per formulare le richieste istruttorie (ma che sovente si risolveva con una richiesta di rinvio), al termine della quale il giudice poteva provvedere subito sull’ammissibilità e rilevanza delle prove richieste oppure riservarsi di farlo in un momento successivo11.

Le leggi nn. 80 e 263 del 2005, al fine di attuare una più elevata concentrazione processuale, hanno modificato il sistema previsto dalla riforma del 1990 e dalla successiva miniriforma del 1995, eliminando l’udienza per le deduzioni istruttorie. Più precisamente, l’obiettivo del legislatore del 2005 è stato quello di evitare che i termini per il compimento delle attività delle parti (consistenti nella formulazione delle istanze probatorie) fossero regolati sui tempi del giudice, ossia adattati agli intervalli, spesso piuttosto lunghi, che intercorrono tra un’udienza e l’altra. Soppressa così la previsione di un’apposita udienza per le richieste di prova, quale era quella di cui alla precedente versione dell’art. 184 c.p.c. (che ora regola l’udienza di assunzione dei mezzi di prova), si è stabilito che le ultime attività di allegazione e le deduzioni istruttorie devono essere svolte a pena di decadenza nell’udienza di trattazione oppure, su richiesta di parte, nelle memorie scritte da depositare entro tre termini concessi dal giudice e fissati nella durata dalla legge secondo quanto prescritto dall’art. 183, comma 6°, c.p.c.

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Il diritto delle parti di chiedere le prove e produrre i documenti va esercitato nel secondo termine perentorio previsto dall’art. 183, comma 6°, c.p.c., ossia entro trenta giorni decorrenti dalla scadenza del primo (anch’esso di trenta giorni)12. Nel suddetto termine opera il principio di libertà, in quanto le parti possono formulare qualsiasi richiesta di prova e produzione documentale senza dover fornire alcuna giustificazione dell’impossibilità di provvedervi in un momento anteriore. Gli artt. 163, comma 3°, n. 5, e 167, comma 1°, c.p.c., pur prevedendo che l’attore e il convenuto indichino nell’atto di citazione e nella comparsa di risposta i mezzi di prova di cui intendono avvalersi e i documenti che offrono in comunicazione, non stabiliscono alcuna decadenza, sicché nessuna conseguenza può derivare dalla mancata o incompleta formulazione delle richieste istruttorie, le quali, ancorché deducibili sin dagli atti introduttivi, possono essere liberamente effettuate sino alla scadenza del secondo termine di cui al comma 6° dell’art 183 c.p.c.13.

I termini previsti dall’art. 183 c.p.c., essendo posti a tutela del diritto di difesa, non rientrano nella discrezionalità del giudice, che deve fissarli anche quando a richiederli sia una parte soltanto. Va invece ammessa la possibilità per la parte di disporne rinunciando a uno di essi, se ritenuto inutile, al fine accelerare l’iter processuale14.

Pertanto, l’omessa concessione comporta una violazione del diritto di difesa con conseguente nullità della sentenza, denunciabile in appello o in Cassazione (sempre che il vizio non sia stato sanato nel corso del processo da un provvedimento del giudice che, riconosciuto l’errore, abbia rimesso le parti nei termini per l’esercizio del diritto alla prova). A tal proposito, è forse il caso di ricordare che, secondo la S.C., la violazione delle regole processuali destinate alla definitiva determinazione del thema decidendum e probandum non è rilevabile d’ufficio dal giudice d’appello, ma deve essere denunciata dall’appellante con i motivi specifici dell’impugnazione, indicando altresì in maniera precisa le attività assertive e istruttorie pregiudicate da tale violazione15. Il principio, enunciato con riferimento al sistema di preclusioni previgente, ben può valere...

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