Parole non dicibili e diritto

AutoreCristina Romanò
Pagine307-314

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  1. L’esperienza giuridica e la riflessione filosofica sui fenomeni normativi evidenziano l’esistenza di “dimensioni tacite del diritto”1. Vi sono fenomeni giuridici e metagiuridici, tra loro eterogenei, non costituiti da entità linguistiche, o non espressi, o non esprimibili attraverso la lingua del diritto. Essi interagiscono con i fenomeni espressi a diversi livelli di astrazione della realtà giuridica. Individuo tre dimensioni tacite notevoli del diritto.

  2. Una prima dimensione tacita del diritto opera a livello degli atti. Gli atti giuridici compiuti tacitamente partecipano del “diritto muto”2 inteso come

    * Il presente contributo approfondisce alcuni aspetti connessi al tema del “diritto muto”, in continuità con il percorso di ricerca da me intrapreso con la tesi di laurea: Crittotipi. Per una filosofia del diritto muto, Università degli Studi di Bari, 2007, e con i miei precedenti contributi a questi Annali: Fenomeni di diritto muto, in Ann. Fac. Giur. Tar., I, 2, Bari, 2008, pp. 348-357; Norme al di fuori del linguaggio, in Ann. Fac. Giur. Tar., II, Bari, 2009, pp. 463-467.

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    “diritto non parlante”3. Si tratta di atti che, pur non compiendosi attraverso parole, fanno riferimento ad un codice semiotico4 e hanno valore semantico5. Gli atti giuridici muti sono sempre gestuali. Alcuni di essi si inseriscono in contesti rituali, come il bacio della sposa, cui il diritto romano attribuì un significato solenne6.

    1.1. Di “atti muti” parla Rodolfo Sacco in molteplici luoghi della sua opera. Sono atti gestuali definiti “non parlanti”; “taciti”; “senza parole”; “compiuti senza parlare”;“compiuti tacitamente”; “compiuti stillschweigend”7. Ecco alcuni esempi di atti giuridici muti individuati da Rodolfo Sacco8: l’occupazione; l’abbandono della cosa; la sanatoria di un negozio invalido mediante esecuzione; l’accettazione tacita di mandato; l’accettazione di un’ordinazione mediante invio della merce9.

    1.2. Nell’opera del filosofo Giovan Battista Vico (1668-1744) Principî di scienza nuova, il sintagma ‘atti muti’ compare nella ricostruzione della prima delle tre età in cui l’autore suddivide la “storia ideale eterna”. Si tratta dell’età degli dèi, in cui il linguaggio verbale non era ancora articolato. Ecco quale era allora lo strumento comunicativo:

    […] la prima fu una lingua divina mentale per atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie, onde restaron in ragion civile a’ Romani gli atti legittimi co’ quali celebravano tutte le faccende delle loro civili utilità10.

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    Gli “atti muti” di cui parla Vico sono atti di linguaggio al di fuori della lingua, gesti non verbali il cui significato attiene al sacro. Sono atti religiosi, rituali. Sono anche atti giuridici?

    Vediamo un altro passo dell’opera di Vico:

    Tre spezie di Giurisprudentie, ovvero sapientie, la prima fu una sapientia divina, detta […] Teologia mistica, che vuol dire scienza di divini parlari […] e tale giurisprudentia estimava il giusto dalla sola solennità delle divine cerimonie

    Nel passo riportato, ritroviamo le “divine cerimonie”, locuzione che nel primo frammento è sinonimica di “atti muti religiosi”. “Il giusto” è dunque posto in relazione con gli atti muti religiosi: è giusto ciò che è compiuto attraverso atti “solenni”, e dunque conformi a quanto prescritto12. Ma prescritto da chi?

    È “Jous” a prescrivere le leggi che regolano i comportamenti umani, per poi comunicarle facendo riferimento ad un codice semiotico non verbale13:

    “scrivendole con la folgore e pubblicandole col tuono”14. “Jous” è “Giove”, padre degli dèi, “mythos” [mûqoj] (da cui, secondo Vico, l’aggettivo “muto” [mutus]15), ma anche “Ius”, diritto16. Gli atti linguistici muti, in quanto espressione di un “modo regolato d’agire”, sono al contempo atti “giuridici” muti17. Essi sono “caratteri” che partecipano del nomogramma [nomogram-

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    me] rituale e attraverso i quali, dunque, si realizza una forma di “scrittura” del normativo18.

  3. Una seconda dimensione tacita del diritto si individua a livello di norme. Mi soffermo sui concetti di “norme non dette” in un saggio del giurista e filosofo polacco Jerzy Wróblewsky (1926-1990) e di “norme mute” nell’opera di Rodolfo Sacco.

    2.1. Nel saggio Le non dit dans le droit: présupositions et conventions implicites, 198919, Wróblewsky delinea due categorie di ”dit dans le droit” (dit dépersonnalisé / dit personnalisé)20 e tre categorie di “non dit dans le droit” (non dit I / non dit II / non dit III)21.

    2.1.1. Il “dit personnalisé”, il “non dit II” e il “non dit III” si riferiscono in particolare al processo ermeneutico di norme giuridiche espresse22, mentre il “dit dépersonnalisé” e il “non dit I” sono insiemi di norme.

    Mi soffermerò soprattutto sulle ultime due categorie. Attraverso due frammenti del saggio citato, vediamo quali sono le norme “dette” e quelle “non dette” secondo Wróblewsky:

    Le dit au sense dépersonnalisé [...] est défini comme : a) Les régles édictées par le legislateur et formulés dans le langage du droit ; b) avec leur signification directe selon les directives du sens de ce language.

    Il “detto” in senso “depersonalizzato” […] è definito come: a) le regole pubblicate dal legislatore e formulate nel linguaggio del diritto; b) insieme al loro significato diretto [ricostruibile] secondo le regole semantiche di quel linguaggio23.

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    Le non dit I est composé de règles formulées par la jurisprudence sous forme de précedents, ou de règles coutumières sanctionnées dans la pratique juridique.

    Il “non dit I” è costituito dalle regole formulate dalla giurisprudenza nelle decisioni giudiziali (precedenti), o dalle regole consuetudinarie che sono sancite dalla prassi giuridica [effettive nella prassi]24.

    Per differenziare le norme “dette” dalle norme “non dette” ci si deve chiedere chi abbia posto in essere l’enunciazione di enunciati normativi. La domanda sembra essere, dunque: “chi parla”25?

    Nei casi in cui la risposta a tale quesito sia “il legislatore”, la norma riferibile all’enunciato dato rientrerà nel “dit dépersonnalisé”. In tutti gli altri casi, ivi compreso il caso limite in cui la risposta sia “nessuno” (il che significa che non vi è un enunciato normativo), la norma rientrerà nella categoria del “non dit I”26.

    Le “norme mute” per Rodolfo Sacco sono norme “non dette” perché “non parlate”, “silenti”, “inespresse”, “implicite”, “nonverbalizzate”, “nonformulate in parole”, “unausgesagtes Norms”27. Il modello è soprattutto quello dei “crittotipi”28. Si tratta di consuetudini latenti29, espressione del

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    “diritto vissuto” [Erlebnisrecht] e del “vissuto giuridico” [Rechtserlebnis] di una cultura30.

    La discriminante tra norme “mute” e “non mute” (espresse) in Rodolfo Sacco è costituita, principalmente, dal fatto che non vi sia o vi sia una “formulazione linguistica” (verbalizzazione) delle stesse.

    2.3. Vi sono norme che rientrano nella categoria del “non detto” [non dit] secondo l’elaborazione di Jerzy Wróblewsky, pur non essendo “mute” secondo l’approccio di Rodolfo Sacco. Faccio alcuni esempi: le “norme non scritte” [ἄgrafa nómima]31, la consuetudine espressa, tanto in forma orale che in forma scritta (“verbalizzata dal giurista dotto”32), il “diritto giurisprudenziale”33.

  4. Individuo una terza dimensione tacita del diritto con riferimento all’opera di Pierre Legendre34. Non si tratta...

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