La riforma della contabilità pubblica e le disposizioni finanziarie del trattato di Lisbona

AutoreAntonio Uricchio
Pagine425-434

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Nell’incessante susseguirsi di provvedimenti normativi frammentari e di dettaglio, sono rari i quelli di sistema e ancora meno quelli in grado di incidere profondamente sul settore che ne costituisce oggetto, assicurando prospettive di stabilità e certezza giuridica. Ciononostante, nella “tormentata” materia della finanza e contabilità pubblica, più volte interessata a cicliche riforme (si vedano ad esempio quelle riguardanti la redazione dei conti pubblici di cui alle leggi 468 del 1978, 362 del 1988, 208 del 1999), sono state adottate, alla fine dello scorso anno, interventi normativi che potremmo definire “epocali” in quanto destinati a influenzare in modo decisivo lo sviluppo dell’intero sistema finanziario pubblico (comunitario e interno): il nuovo trattato di Lisbona (entrato in vigore il 1 dicembre 2009) e la legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante la riforma della contabilità e della finanza pubblica.

Se il nuovo Trattato introduce profonde modifiche, non solo con riguardo agli assetti finanziari e di bilancio, ma soprattutto con in ordine a quelli interistituzionali ed alle procedure decisionali dell’Unione europea, la seconda ridefinisce le relazioni finanziarie tra i diversi livelli, centrali e periferici, di governo della cosa pubblica, ponendosi l’obbiettivo, non meno ambizioso e importante, di armonizzare e uniformare principi e obiettivi in materia di redazione dei bilanci pubblici. Pur avendo ambiti apparentemente distinti, i provvedimenti richiamati si segnalano non solo perché temporalmente collegati ma anche per i non pochi intrecci tra loro (si pensi ai temi della programmazione finanziaria e del patto di stabilità).

Non può poi sfuggire che la legge 196/2009 è stata adottata pochi mesi dopo l’approvazione della legge delega apporta n. 42/2009 in materia federalismo fiscale.

Collegando i diversi provvedimenti normativi emerge come, sia in ambito comunitario che interno, fondamentale importanza assume il principio di responsabilità finanziaria che, a sua volta, impone ed esige, a tutti i livelli, strumenti di carattere contabile trasparenti che consentano di apprezzare i risultati delle scelte finanziarie compiute sia agli amministratori che agli am-

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ministrati. Allo stesso tempo, le esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica, fortemente avvertite in sede di comunitaria (si pensi ai parametri di convergenza e ai limiti rivenienti dal patto di stabilità) appaiono ineludibili anche per la legislazione interna sempre più impegnata nel fissare tetti di spesa, vincoli di natura finanziaria (si pensi al modello dei costi standard utilizzato come criterio ispiratore dei trasferimento i erariali di alcune funzioni fondamentali come la sanità). Appare di tutta evidenza come il perseguimento di tali obbiettivi passi necessariamente attraverso regole di carattere finanziario e strumenti di rilevazione omogenei sia in Europa che in Italia oltre che attraverso procedure condivise di controllo e di valutazione di efficienza finanziaria.

Procedendo con ordine, occorre in primo luogo sottolineare che l’Unione europea, in quanto organizzazione sovranazionale chiamata ad operare secondo precise responsabilità finanziarie, da tempo (con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht) ha posto parametri di convergenza economica, attraverso il controllo della finanza pubblica degli Stati membri. L’Italia, come gli altri Stati dell’Unione, si è impegnata a mantenere il proprio bilancio pubblico in una situazione di sostanziale pareggio e a raggiungere e consolidare il proprio livello di debito pubblico entro un valore tale da garantire la sostenibilità del sistema finanziario europeo e la stabilità della moneta unica.

Allo stesso tempo, l’Unione europea, allargando i propri spazi di intervento, è stata ancora più impegnata sotto il profilo della spesa, necessitando così anche di una piena autonomia di entrata. Il primato del diritto comunitario, ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza comunitaria e degli Stati membri, non può essere apprezzato se non considerando la dimensione finanziaria dell’Unione europea. Ne deriva una supremazia delle scelte finanziarie europee che si manifesta attraverso limitazioni alle scelte finanziarie degli Stati membri, nella definizione di modelli di governance rappresentativo di un multilevel governance1 ma anche nell’individuazione di strumenti di finanziamento e di erogazione della spesa.

Su questa strada sembra muoversi il nuovo Trattato di Lisbona che, pur non sovvertendo il modello di finanziamento dell’Unione europea, ancora fondato sulle risorse proprie previste in passato e quindi sulla finanza degli Stati membri, ridefinisce competenze, procedure e strumenti di rilevazione del quadro finanziario.

Oltre ad accentuare i momenti di democraticità (si pensi all’estensione quasi generalizzata della procedura di codecisione), una volta tramontato il progetto di una Costituzione per l’Europa2, il nuovo Trattato accresce i poteri del Parlamento europeo, attraverso l’eliminazione della distinzione tra spe-

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se obbligatorie (in passato affidate alla competenza del Consiglio) e spese non obbligatorie (per le quali era previsto il coinvolgimento del Parlamento). Il bilancio annuale europeo deve essere così adottato congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio, conformemente al quadro finanziario pluriennale. Secondo la nuova disciplina del Trattato di Lisbona, anche il regolamento finanziario (compreso quello con il quale vengono dettate le regole di esecuzione del regime delle risorse proprie) dovrà essere adottato dal Parlamento e dal Consiglio secondo la procedura legislativa ordinaria (art. 322 corrispondente al precedente art 279) vale a dire attraverso il metodo della codecisione.

Restano, invece, ferme le competenze del Consiglio di regolamentare, attraverso propri atti normativi, le imposte sulla cifra d’affari, le imposte di consumo e le altre imposte indirette; non risulta, inoltre, nemmeno modificata la regola della unanimità nella materia fiscale in forza della quale le decisioni del Consiglio entrano in vigore soltanto previa approvazione di tutti gli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali. Sebbene la Commissione abbia il potere d’iniziativa e il Parlamento partecipi alla procedura mediante la formulazione di un parere, il potere decisionale nella materia tributaria spetta sostanzialmente ancora agli Stati membri.

Non mancano, tuttavia, aperture verso un sistema di entrate più moderno e meglio rispondente al principio dell’adeguatezza delle risorse (cfr. art. 311, primo comma, secondo cui “l’Unione si dota...

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