Fattore etico e fattore economico nell?era del capitalismo globalizzato

AutoreAdriana Chirico
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  1. Il neoliberismo della Scuola di Chicago, da Milton Friedman a George Stigler1 a Gary Backer, ha teorizzato il divorzio tra economia ed etica, sostenendo la necessità economica dell’egoismo individuale, il cosiddetto istinto animale, che porta ad arricchirsi senza limiti e con ogni mezzo a scapito degli altri. In particolare Gary Backer è sostenitore della teoria secondo la quale la sintesi tra l’etica e l’economia non è possibile perché l’economia e il mercato, nel caso riconoscessero al loro interno degli errori, sarebbero in grado di gestirli e risolverli da soli2. Non c’è quindi necessità di regole che guidino l’economia dall’esterno, che andrebbe a violare la libertà del mercato3. Di

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conseguenza l’etica funzionale all’economia è guardata non solo con sospetto, ma con il rifiuto di chi sostiene la sua inutilità e dannosità4. I principi del neoliberismo aggressivo sono maturati nella corrente di pensiero irreligioso che ha preso corpo all’alba della modernità, attraverso autori come Machiavelli, Hobbes, Mandeville, per i quali l’uomo è costitutivamente non aperto alla dimensione sociale. Vale la pena di citare, come esempio, la celebre favola delle api di Bernard de Mandeville, il cui sottotitolo racchiude il messaggio centrale dell’autore: “Vizi privati, pubblici benefici”5. La favola narra, infatti, la storia di un alveare di api egoiste che, grazie alla loro avarizia e disonestà, vivevano nell’abbondanza e nel benessere. A un certo punto le api si convertono e diventano oneste, altruiste e virtuose. In breve tempo l’alveare precipita nella miseria.

Ancora più penetrante è il principio che stabilisce l’economista inglese Philip. H. Wicksteed, il quale introduce la figura dell’isolato Robinson Crusoe (prima dell’incontro con Venerdì) per mostrare che l’economia non ha bisogno della socialità, perché il problema economico è chiaramente definito anche per il singolo individuo6. Wicksteed toglie alla relazione interpersonale il diritto di cittadinanza all’interno della società economica attraverso l’introduzione del celebre e inquietante concetto del nontuismo: il rifiuto del “tu”, dell’altro, del rapporto fraternizzante, come elemento della socialità economica. Secondo Wicksteed il discorso economico finisce nel momento in cui l’agente economico riconosce nell’altro un “tu”; la sfera economica diventa quella caratterizzata dai rapporti puramente anonimi, spersonalizzati e quindi strumentali7. Certo per Wicksteed, pastore dell’Unitarian Church, c’è posto per l’altruismo, ma solo in ambiti diversi da quello economico, che è invece anonimo e non lascia spazio alla reciprocità8; la solidarietà può intervenire ad altri livelli, nell’utilizzo e nella redistribuzione del sovrappiù ottenuto dallo scambio. In sostanza, nel passaggio di secolo tra ‘800 e ‘900 si consuma la rottura epistemologica definitiva tra la scienza economica con-

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temporanea e quella umanistica e civile. L’ingresso dell’utilitarismo in economia9, l’operazione metodologica di Wicksteed, la rifondazione della teoria della scelta operata da Pareto, hanno portato ad un risultato convergente: espellere la reciprocità, principio cardine dell’economia civile, fuori dall’orizzonte della riflessione economica10. L’espressione “economia civile” – sul cui concetto oggi riflette in particolare Stefano Zamagni11 – richiama una tradizione di pensiero squisitamente italiana che ha le sue radici nel medioevo e nell’umanesimo civile del ‘400 e ‘50012, continuato fino al periodo d’oro dell’illuminismo italiano di scuola sia milanese che napoletana. A partire dagli inizi dell’800 l’approccio civile all’economia scompare dalla scena pubblica e dal dibattito scientifico.

L’economia civile è quel sistema di relazioni sociali e produttive in grado di concorrere alla costruzione della civitas umana attraverso la via creatrice della reciprocità e della solidarietà. Per questa via è offerta la possibilità di conciliare efficienza ed equità, dimostrando la possibilità e la necessità di una integrazione tra economia ed etica. Troviamo qui uno degli assi portanti del pensiero di Amartya Sen, il quale dimostra che l’homo oeconomicus, l’uomo, cioè, che persegue, nelle sue attività e nelle sue scelte, unicamente l’interesse privato, non coincide con l’uomo reale, le cui motivazioni ad agire, anche a livello economico, assumono dimensioni che superano la nozione

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stessa della massimizzazione dell’interesse e chiamano in gioco fattori comportamentali, religiosi, sentimentali, persino irrazionalistici, che coincidono con la complessità stessa dell’umanità dell’uomo. È riduttivo escludere che l’uomo possa perseguire altre finalità rispetto all’utilità, cioè al vantaggio economico legato allo scambio. Sen critica il concetto di economia positiva, basato sulla definizione univoca di razionalità nel senso del comportamento mirato a massimizzare l’interesse personale, secondo il principio della dottrina utilitarista stabilita da Pareto, per il quale perseguendo ogni individuo la sua utilità privata, dalla somma delle utilità individuali deriva un incremento dell’utilità sociale. Si tratta di un approccio che considera solo la dimensione dell’efficienza nello spazio dell’utilità, senza considerare gli aspetti riguardanti la dimensione distributiva riguardanti l’utilità13. Ma, dice Sen, questo è un concetto riduzionista di razionalità, che non tiene conto dell’interesse per l’economia normativa, la quale è aperta a valutazioni etiche e ai problemi legati all’equità, vale a dire alla distribuzione sociale delle opportunità e del reddito; assunto che mette in discussione l’idea di razionalità coincidente con il principio paretiano della massimizzazione dell’utilità individuale. Nozione che impoverisce unilateralmente il comportamento umano e riduce la sua costitutiva tensione alla felicità alla sola prospettiva dell’utilità14. Al riguardo Sen osserva che l’utilitarismo non riesce a rendere conto del’importanza intrinseca del rispetto delle libertà personali e dei diritti, riservando ad essi solo un ruolo strumentale rispetto all’utilità15. In effetti nel welfarismo è l’utilità di ciascun individuo il criterio per decidere il valore della situazione, per cui appare seriamente difficoltoso l’incontro tra criterio paretiano e l’attribuzione di valore ad alcuni diritti non strettamente connessi con l’utilità, come il rispetto della libertà di scelta e dei desideri personali16.

Di qui la critica di Amartya Sen all’odierno sistema del welfarismo, per il quale il criterio per definire la bontà di uno Stato è lo starbene individuale (wellbeing), concepito come l’insieme delle utilità individuali17; nozione, quest’ultima, che differisce in modo sostanziale da quella del welfare della tradizione economica del benessere18, che induce Sen alla severa critica all’utilitarismo nella prospettiva della più generale critica all’assetto econo-

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mico dell’opulenza19. In questo senso è riduzionista l’idea di libertà che vede nel mercato la soluzione dei problemi sociali attraverso la logica dell’efficienza; allo stesso modo lo è quella visione che vede le imprese e il mercato per loro natura antisociali; idea che prende le mosse da Karl Marx e Karl Polanyi e trova spazio oggi, ad esempio, nei contestatori anti G8. L’intento di Sen di integrare i valori etici nell’economia positiva mira a contrapporre al liberismo selvaggio – estrema e coerente espressione dell’utilitarismo, che privilegia l’efficienza rispetto all’equità – un liberalismo umanistico che tempera l’egoismo con il richiamo al fatto che l’uomo, per quanto indubbiamente interessato a sé, è comunque un essere sociale20. Lo starbene della persona appare a Amartya Sen una valutazione che ha la sua importanza non secondaria e che, in certo senso costituisce una eredità positiva dell’utilitarismo21, ma ad essa vanno aggiunte le acquisizioni, i risultati, i successi ottenuti in termini di azione complessiva della persona. Il soggetto che agisce ed opera non è necessariamente guidato dal proprio starbene, ma guarda anche ai successi conseguiti nel tentativo di raggiungere la complessità degli obiettivi che si propone22. Peraltro, accanto ai risultati effettivamente raggiunti, va considerata anche la libertà della persona di acquisirli, la libertà di perseguire il proprio starbene, la libertà di svolgere le attività che ritiene di intraprendere23. Dunque, al contrario dell’utilitarismo, attento solo alle acquisizioni in termini di starbene, l’etica sociale che propone Sen guarda alla complessità dell’agire della persona e delle sue motivazioni all’azione; in questo senso ha importanza anche la valutazione degli assetti sociali, quegli assetti che consentono agli individui l’uguaglianza delle capacità, la loro attitudine a promuovere le capacità umane24.

Un mercato regolato solo dalla logica del contratto, cioè dello scambio strumentale di equivalenti, non è in grado di sopravvivere a lungo e bene. Il mercato, per poter funzionare, ha bisogno non solo dello scambio strumentale, ma anche di una certa dose di gratuità e di forme variamente articolate di redistribuzione del reddito. Il principio della redistribuzione mira all’equità25. Non basta che un sistema economico sia efficiente nella produzione del reddito; deve anche trovare il modo di redistribuirlo equamente. E questo non solo per ragioni di natura etica, ma propriamente economiche: è lo stesso sistema di mercato che non può funzionare bene a lungo se quote ragguarde-

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voli dei suoi membri non possono ad esso accedere per mancanza di potere d’acquisto. Ma una società che riuscisse a far stare insieme efficienza ed equità non sarebbe, però, ancora una buona società se mancasse la reciprocità, che è il principio che traduce in atto lo spirito di fraternità, parola sfortunatamente caduta in disuso dopo la rivoluzione del 178926. In molti, anche fra gli addetti ai lavori, confondono la solidarietà con la fraternità. La prima è...

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