Le università non statali e le università telematiche nella riforma Gelmini

AutoreMarco Sepe
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@1. Introduzione: limiti del metodo seguito nella riforma

Nella seduta del 29 luglio 2010, il senato della repubblica ha approvato il disegno di legge recante “norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”, in attesa ora di esame da parte della Camera dei deputati.

Come appare dalla sua stessa intitolazione, il disegno di legge – nel dichiarato intento di addivenire a una complessiva riforma del sistema universitario, ispirata a principi di efficienza, autonomia, responsabilità e premialità – affronta una molteplicità di argomenti aventi rilievo centrale negli assetti del nostro sistema universitario.

In particolare, gli architravi del provvedimento, quali risultano anche dai documenti che hanno accompagnato i lavori parlamentari1, sono costituiti: a) dalla riforma della cosiddetta governance di ateneo, con una netta distinzione tra le funzioni del senato accademico e quelle del consiglio di amministrazione; al primo organo sono demandate funzioni di proposta, di stimolo e di controllo, mentre al secondo è rimessa l’assunzione di decisioni di tipo gestionale più significative concernenti l’ateneo; b) dalla centralità che assumono i dipartimenti quali organismi di raccordo fra ricerca e didattica, a fronte di un ridimensionamento del ruolo delle facoltà; c) dal collegamento premiale tra il conseguimento della stabilità di bilancio o di elevati livelli nel

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campo della didattica e della ricerca scientifica e la sperimentazione di modelli funzionali e organizzativi diversi da quelli previsti dalla legge; d) dalla possibilità di integrazione tra università, mediante accordi di programma, fusioni o federazioni, anche limitatamente ad alcuni settori di attività o strutture; e) dall’introduzione di un Fondo per il merito, destinato a promuovere l’eccellenza fra gli studenti, nonché di un Fondo per l’incentivazione di professori e ricercatori; f) dalla riforma dello stato giuridico dei docenti con una ridefinizione del ruolo e dell’impegno richiesto ai professori a tempo pieno e a tempo determinato, con la definitiva trasformazione della figura del ricercatore, attraverso la messa ad esaurimento dei ricercatori a tempo indeterminato e la contestuale previsione di contratti di ricerca, per un triennio, rinnovabili per un altro triennio; nonché con l’abolizione degli automatismi retributivi e una nuova disciplina delle incompatibilità; g) dalla nuova disciplina dei meccanismi di reclutamento, fondata sull’introduzione dell’abilitazione scientifica nazionale a lista aperta, con commissioni estratte a sorte all’interno di liste di professori di prima fascia, cui seguono le chiamate in cattedra, con conseguente assunzione in servizio, rimesse invece a ulteriori selezioni a livello di singola università; h) dalla rivisitazione della disciplina degli assegni di ricerca e dei contratti per attività d’insegnamento.

Il numero e l’ampiezza dei temi affrontati nel disegno di legge, in un dichiarato intervento riformatore della materia, induce a una prima riflessione critica sul metodo, ancor prima che sulle scelte normative in concreto effettuate.

Il provvedimento, infatti, sovrapponendosi ed intrecciandosi ad una stratificata e frammentaria disciplina del settore universitario, non solo solleva problemi di coordinamento con la regolamentazione sulla quale va incidere, lasciando spazi a dubbi e interpretazioni più o meno estensive (come si avrà modo più appresso di evidenziare), ma rappresenta un’ulteriore occasione persa per un riordino complessivo della materia, per una reconductio ad unitatem2.

La complessa e non sempre coerente articolazione della normativa vigente in tema di università, la natura settoriale (di ordinamento a sé stante) della disciplina stessa, nonchè la genesi del provvedimento –

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che origina dall’unificazione di più proposte legislative3 e aspira ad essere punto qualificante di una nuova concezione del “sistema università” –, avrebbe giustificato anche l’approvazione di una delega al Governo per la redazione di un testo unico; tanto più che l’attuale legislatura si è connotata per una meritoria opera di razionalizzazione normativa in molteplici settori, anche meno rilevanti e strategici rispetto quello in parola.

@2. Università e disciplina costituzionale: l’«autonomia» degli atenei

Come per i suoi precedenti il d.d.l., nel suo incipit, solennemente afferma che le “… università sono sede primaria di libera ricerca e libera formazione nell’ambito dei rispettivi ordinamenti e … operano, combinando in modo organico ricerca e didattica, per il progresso culturale, civile ed economico della Repubblica” (art. 1, comma 1). si precisa altresì che “In attuazione delle disposizioni di cui all’articolo 33 e al titolo v della parte II della Costituzione, ciascuna università opera ispirandosi a principi di autonomia e responsabilità” (art. 1, comma 2).

Pur non fornendo una definizione puntuale di “università”, il provvedimento si colloca nel solco della tradizione legislativa, dottrinaria e giurisprudenziale, che individua il tratto distintivo della istituzione universitaria nella connessione inscindibile e nella coincidenza personale tra attività di ricerca e attività d’insegnamento, per cui, come è stato efficacemente detto “… la natura peculiare dell’università si coglie soltanto se si pone in evidenza che essa è il luogo elettivo nel quale si fondono la ricerca scientifica e l’insegnamento4.

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Carattere di novità, anche rispetto a precedenti provvedimenti di riforma del settore (cfr. art. 6 della legge 9.05.1989 n. 168), rivestono invece i richiami al titolo V della Costituzione e al principio di “responsabilità”, essendo quello di “autonomia” espressamente contemplato dall’articolo 33, u.c., della Carta, laddove dispone che “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.

Con riguardo al primo, si può innanzitutto rilevare che l’ “università” non rientra tra le materie espressamente prese in considerazione dall’articolo 117, Cost.5, pur dovendosi escludere che essa ricada tra quelle di esclusiva competenza regionale ai sensi del comma 4, in presenza di una disposizione quale l’articolo 33 u.c. Cost. deve anzi sottolinearsi come il Giudice delle leggi abbia, anche dopo la riforma del Titolo V, a più riprese sottolineato il principio dell’incompetenza regionale nella disciplina del sistema universitario e dell’ordinamento delle singole università, essendo la materia demandata (ai sensi dell’art. 33 u.c. Cost.) all’autonomia degli atenei, da esercitarsi nei limiti stabiliti dalle leggi dello stato6.

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Pertanto, il richiamo al titolo V della Costituzione contenuto nel provvedimento approvato – salvo ritenerlo pleonasticamente riferito anche al rispetto dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art. 117, comma 1, Cost.) o, più in generale, ai principi di “sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”, che dovrebbero caratterizzare l’azione amministrativa statale anche nel settore universitario (art. 118 comma 1) – si deve ritenere effettuato con esclusivo riferimento alla prevista revisione della normativa di principio in materia di “diritto allo studio” e contestuale “definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) destinati a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano l’accesso all’istruzione superiore” (cfr. art. 5, comma 1, lett. d) e comma 6 del d.d.l.).

Con riguardo invece al principio di “responsabilità”, esso risulta sconosciuto al dettato costituzionale, seppure rigore morale ed intellettuale impongono di ritenerlo implicito, un corollario, al pure richiamato principio di autonomia: non vi può essere infatti autonomia, né libertà, disgiuntamente dal principio di responsabilità delle azioni attraverso le quali l’autonomia si esplica. ma la “responsabilità” presuppone l’autonomia: non si può infatti rispondere di azioni o scelte sulle quali non è possibile autodeterminarsi. Ed è al riguardo sintomatico come, nel provvedimento in parola, il rapporto tra autonomia e responsabilità venga rovesciato, laddove si prevede che “sulla base di accordi di programma con il Ministero … le università che hanno conseguito la stabilità e sostenibilità del bilancio, nonché risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca, possono sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, ivi comprese diverse modalità di composizione e costituzione degli organi di governo” (art. 1, comma 2).

In tale ottica l’autonomia non è più il “principio” dal quale consegue la “responsabilità”, bensì il “premio” che viene dallo stato riconosciuto a quelle istituzioni universitarie che si siano dimostrate “responsabili”; il che solleva dubbi di compatibilità con l’art. 33 u.c. della Cost.

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Non ci si può invero dimenticare che la riforma in esame è anche figlia di una gestione economica dissennata di talune università statali, di storica tradizione e oggi in situazione di dissesto finanziario, circostanza questa che ha indotto il legislatore, da un lato, a valorizzare gli elementi di imprenditorialità nella gestione universitaria, dall’altro, a introdurre appositi istituti e strumenti per affrontare crisi siffatte7.

Né sotto altro profilo può sottacersi che vi è un obiettivo problema legato all’interpretazione che si è data dell’autonomia e all’esercizio della stessa da parte delle università. Non è mancato chi a tal proposito ha ricordato “… il proliferare dei corsi e delle sedi, gli aggiustamenti statutari continui e ad personam, i reclutamenti discutibili, ecc., il tutto spesso con la compiacenza, formale o sostanziale, degli apparati ministeriali8.

Tuttavia ciò non può indurre a un ribaltamento del dettato costituzionale che vede...

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