Introduzione

AutoreFrancesco Capriglione
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  1. Dopo un dibattito che ha visto un’ampia convergenza politica, a fine luglio 2010, il senato ha approvato il disegno di legge di riforma dell’università. destinato, nelle intenzioni del ministro proponente, a rivoluzionare la regolazione di settore, il disegno di legge in parola appare, prima facie, portatore di significative innovazioni, che tuttavia ad un più attento esame denotano rilevanti limiti e soprattutto una scarsa sensibilità verso la realtà oggetto di rivisitazione. su quest’ultima, infatti, le nuove regole impattano senza tener conto delle conseguenze derivanti dallo sradicamento di tradizioni comportamentali consolidate nel tempo, introducendo soluzioni semplicistiche e talora demagogiche orientate prevalentemente al recepimento di indicazioni espresse «in luoghi comuni». si è in presenza, dunque, di una riforma che viene rappresentata come strutturale alla quale se, per un verso, va l’indiscusso merito di aver sollevato il velo su annose «questioni» dell’università italiana, per altro non può ascriversi carattere di definitività, tale da risolvere in termini esaustivi le problematiche in essa affrontate. Ed invero, è senz’altro apprezzabile il proposito di ammodernare l’accademia ispirandosi a modelli transazionali e di ravvisare nella logica meritocratica (che, peraltro, laddove fa comodo viene dimenticata a favore di un populismo di maniera) il fondamento di una trasformazione necessaria per dare nuova linfa all’acquisizione dei saperi ed alla ricerca; tuttavia, non può sottacersi che detti «buoni propositi» non sono stati adeguatamente supportati sul piano delle concretezze applicative. sicché all’impegno della politica per consentire al sistema Paese di avvalersi appieno delle sue migliori risorse umane, non sembra corrispondere un’idonea progettualità o, più esattamente, un’appropriata visione critica della complessità dei problemi affrontati (rispet-

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    to alla quale le linee progettuali proposte spesso finiscono col risultare poco coerenti, lacunose, o, comunque, insufficienti).

    È una vecchia storia che, purtroppo, si è ripetuta più volte nei corsi e ricorsi della nostra regolazione, spesso caratterizzata da interventi legislativi che esprimono forti istanze verso auspicati cambiamenti disciplinari, cui peraltro non è dato poi riscontro dalla tipologia dei rimedi adottati. da qui l’esigenza di procedere ad una verifica dei profili centrali del testo normativo approvato dal senato, valutandone la contrarietà (che talora presenta) alla realizzazione di un apparato dispositivo volto a garantire qualità ottimale della didattica ed elevato livello della ricerca nell’università italiana.

    Naturalmente, tale verifica non si propone tout court uno sterile intento demolitorio delle conclusioni assunte in sede politica, bensì di dare un qualche contributo costruttivo all’identificazione delle scelte disciplinari che in via definitiva dovranno essere assunte dal Parlamento in subiecta materia. Come è consuetudine in coloro che fanno professione di pensiero, la funzionalizzazione della critica al perseguimento dell’obiettivo prefissato è avvenuta in modalità non disgiunte dal convincimento che la «verità» è un valore la cui essenza siamo chiamati a scoprire e costruire in chiave oggettiva.

    Il concorso di alcuni studiosi, docenti di scienze sociali, nello svolgimento di tale compito conferisce all’indagine che qui si presenta peculiare vettorialità; ciò nel senso che consente di richiamare l’attenzione sulle tematiche di natura giuridica ed economica lasciate irrisolte, se non addirittura trascurate, dai lavori parlamentari. Va da sé che le conclusioni per tal via raggiunte – attesa l’omogeneità delle dinamiche operative del mondo universitario ed il particolare humus culturale dell’ambiente di riferimento – sembrano proponibili anche con riguardo a settori scientifici disciplinari diversi. Nel delineato contesto, è apparso opportuno demandare a studiosi con la qualifica di ricercatore l’analisi di problematiche di loro interesse e pertinenza, tenuto conto del fatto che la riforma in esame ascrive specifica rilevanza alla nominata categoria proponendone sul piano formale la valorizzazione.

  2. Nell’intento di predisporre un sistema universitario fondato su regole nuove e di ridisegnarne completamente la struttura, la riforma incentra su due capisaldi il progettato cambiamento: moderna governance e reale meritocrazia. Al ministero è riservato un ruolo di indi-

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    rizzo e di verifica, previa indicazione degli «obiettivi … strategici per il sistema e le sue componenti»; compito che viene svolto nel rispetto «della libertà di insegnamento e dell’autonomia delle università» e col concorso dell’«Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVur)», la quale interviene secondo «criteri di qualità, trasparenza e promozione del merito, anche sulla base delle migliori esperienze diffuse a livello internazionale» (art. 1, comma 4).

    Viene così delineato un assetto di governo degli atenei che, nel predisporre un sostanziale trasferimento di poteri dal senato accademico al Consiglio di amministrazione, conferisce la possibilità d’ingresso in quest’ultimo a componenti esterni all’Accademia. si introduce, quindi, un modello che, sulla falsa riga di analoghe formule organizzatorie sperimentate in paesi stranieri, recupera in parte schemi già adottati nelle università non statali riconosciute.

    L’aspettativa di ricadute positive – legate alla prospettiva di significativi livelli di efficienza e responsabilità di «organi di comando» caratterizzati dalla presenza di personalità esterne al mondo universitario – dovrà, comunque, fare i conti con i costi di tale opzione normativa (in termini di autonomia e libertà decisionale delle università vuoi nella definizione dell’offerta formativa, vuoi nella selezione del corpo accademico). È il caso di far presente che nel testo normativo della riforma, laddove è previsto che le università devono procedere ad una revisione dei loro statuti, non sono offerti criteri per la «determinazione delle modalità di elezione del rettore»; donde l’apertura ad interventi dell’organo consiliare che – in conformità a quanto è dato riscontrare negli statuti di alcune università libere1 – potrebbe vedersi riconosciuto il potere di nomina del rettore e dei presidi di facoltà (o dei direttori dei nuovi dipartimenti), con ovvio ridimensionamento delle prerogative dei docenti universitari nella partecipazione al processo formativo di tali organi.

    È evidente come l’esigenza di superare talune inefficienze, i ritardi e le ambiguità che talora si riscontrano nell’attuale «sistema di governance» – appiattito in un’omogeneità organizzativa che non dà spazio alla diversificazione e, dunque, alla politica del settore – si sia

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    risolta in una sorta di «destatalizzazione delle università» (per usare le parole di riccardo Varaldo). Quest’ultima viene proposta con un approccio al quale sembra sottesa non solo la necessità di trasformare per migliorare, ma anche la ricerca di sostegni finanziari per l’innovazione della macchina universitaria, che si vuole fortificata nel presidiare i parametri dell’eccellenza e della competitività.

    Le difficoltà finanziarie con cui oggi si scontrano numerosi atenei confermano tale ipotesi, consentendo di collegare il descritto processo di sbu rocratizzazione al superamento delle limitazioni che contraddistinguono il tra dizionale modello della università di stato. sicché, le modifiche normative in parola in dividuano il tramite per la sperimentazione di una innovativa tecnica di finanziamento volta ad attrarre capitali privati a favore delle università. È evidente come tale evenienza apra la strada a specifici percorsi finalistici nelle decisioni concernenti gli ambiti della ricerca (donde la possibilità di veder privilegiate le indagini applicate su quelle teoriche) … a nuovi scenari, forse ad incognite che, a tacer d’altro, possono risolversi in una contendibilità della governance.

    Ciò, con l’ovvia, inevitabile conseguenza di compromettere (e vanificare) quanto v’è di buono in questa parte del d.d.l. (si vedano, ad esempio, la semplificazione dell’organizzazione interna, l’ di un principio di proporzionalità tra numero complessivo delle strutture e dimensioni dell’ateneo) e, più in generale, di determinare l’affievolimento della logica ispirata all’economicità delle gestioni che rappresenta un aspetto positivo della riforma, nella quale opportunamente si ipotizza una razionalizzazione dell’offerta formativa, anche mediante ricorso ad operazioni di federazione e fusione di Atenei (art. 3).

    Come dianzi si sottolineava, la costruzione di una nuova struttura degli organi di «comando» degli atenei fa implicito riferimento al modello – riconosciuto nel nostro ordinamento – dell’università non statale (cd. privata). sorprende, peraltro, che a detto prototipo (che fonda la propria legittimazione in espresse previsioni della nostra Carta costituzionale) la normativa in esame non abbia dedicato uno spazio adeguato, mentre avrebbe dovuto costituire motivo d’attenzione la circostanza che si versa in presenza di una realtà in forte espansione e, dunque, destinata ad assumere crescente rilievo nel generale contesto degli apparati di «libera ricerca… di formazione… ed elaborazione critica delle conoscenze», indicati dal testo dell’art. 1, comma

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    1, del d.d.l. approvato dal senato. Per converso, l’aver previsto con riferimento alle università non statali legalmente riconosciute la «correlazione tra la distribuzione delle risorse statali e il conseguimento di risultati di particolare rilievo nel campo della didattica e della ricerca» (art. 12) sta a significare in parte qua una prevalenza delle valutazioni d’ordine finanziario rispetto alla definizione dei criteri ordinatori di siffatte particolari entità soggettive (che tenga conto, cioè, delle peculiarità delle medesime).

    Al riguardo, è il caso di far presente...

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