Il collocamento a riposo dei professori

AutoreFrancesco Capriglione
Pagine139-148

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@1. L’individuazione dell’età pensionabile: l’opzione della riforma

La definizione dell’età pensionabile, come si è avuto modo di anticipare nell’introduzione, ha costituito una delle tematiche più controverse dei lavori parlamentari sulla riforma universitaria. Ciò a causa del fatto che è stato dato spazio nel dibattito ad un orientamento di pensiero secondo cui l’abbassamento di età viene assunto a presupposto della necessaria affermazione del «diritto dei giovani» ad intraprendere la carriera universitaria, a fronte di una permanenza in servizio degli anziani che viene ritenuta di ostacolo a tale processo e, dunque, del tutto ingiustificata.1 Si individua un’ipotesi normativa nella quale si trascura di considerare la contrarietà del principio sopra enunciato alla generalizzata tendenza (riscontrabile nel nostro ordinamento) verso un innalzamento dell’età di pensionamento; tendenza ribadita, da ultimo, dalla cd. manovra economica (d.l. 31 maggio 2010. n. 78, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, convertito nella legge n. 122 del 30 luglio 2010) in linea con il criterio che l’aumento della vita media deve riflettersi anche sulla durata del rapporto di lavoro.

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La riforma – nel fissare a 70 anni il termine ineludibile per il collocamento a riposo dei professori e dei ricercatori (art. 22) – dimentica, inoltre, che nel nostro Paese per taluni lavori non usuranti svolti nel pubblico impiego (come quello dei magistrati) ovvero per talune professioni riconducibili sotto l’egida del pubblico ufficio (si pensi al notariato) è pacificamente riconosciuta un’età pensionabile di 75 anni; limite, quest’ultimo, in passato esteso anche ai professori universitari che ne hanno usufruito fino ad epoca recente (dicembre 2007), allorché il Governo in carica – anticipando le motivazioni ora poste a base dell’attuale intervento normativo – provvide alla sua eliminazione con la legge 24 dicembre 2007, n. 244 ((ritenendo che detto limite fosse contrario ad un contesto disciplinare che si propone l’apertura degli atenei ai giovani ricercatori). si è in presenza di un orientamento politico che – dopo aver dato credito, in un primo momento, ad un emendamento presentato dal Partito democratico (nel quale si prevedeva il pensionamento a 65 anni per favorire l’ingresso dei giovani)2, stante la dichiarazione in aula del ministro Gelmini di essere favorevole a tale abbassamento del limite d’età – non ha poi trovato la disponibilità della maggioranza in sede di approvazione del d.d.l. in esame.3si tralascia di analizzare in questa sede l’aggravio di costi aggiuntivi ed i conseguenti oneri che sarebbero derivati alla finanza pubblica ove mai fosse stato accolto detto emendamento: le critiche da più parti prospettate a tale proposta ne evidenziano il carattere anacronistico e la contrarietà alle esigenze di riduzione di spesa, che al presente denotano carattere prioritario rispetto al comprensibile desiderio di attivarsi per eliminare il precariato che affligge il mondo universitario.4 Tali critiche trovano adeguata conferma in talune «osservazioni» del CuN, formulate nell’adunanza del 21 luglio 2010; sull’argomen-

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to si ritorna in altra parte del presente volume, essendo ad esso dedicato un apposito approfondimento.

Analogamente, si rinvia alle riflessioni formulate nell’ultima parte della introduzione con riguardo alle implicazioni negative derivanti al nostro sistema universitario dall’imposizione di un limite temporale al pensionamento. L’implicita rinuncia alla possibilità di fruire dell’apporto di docenti che, nonostante l’avanzata età, conservano qualità d’eccellenza nella ricerca e nella didattica, ridimensiona la funzione che l’università è chiamata a svolgere; si dà spazio ad una cultura burocratica che – come è stato esattamente osservato5 – induce «il legislatore ad evitare che siano i giudizi di merito il fattore costitutivo delle carriere nel pubblico impiego». L’opzione disciplinare verso la quale vanno le nostre preferenze – che s’incentrano sulla definizione di indicatori preordinati alla verifica di una perdurante capacità nei professori pervenuti in età di pensionamento – dovrebbe consentire di superare una logica ordinatrice che appare decisamente obsoleta nel confronto con i più avanzati modelli organizzatori stranieri (cui la riforma dichiaratamente vuole ispirarsi). sul punto va comunque ribadito che il d.d.l. – nell’intento di perseguire finalità diverse da quelle ricollegabili stricto sensu al collocamento in pensione – ha ricercato una soluzione che, facendo perno sulla riferibilità al dato anagrafico, perviene, come si è detto, a conclusioni poco conferenti con l’equilibrio complessivo di una compiuta rivisitazione della materia. Evidentemente...

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