Sentenza nº 210 da Constitutional Court (Italy), 18 Luglio 2013

RelatoreGiorgio Lattanzi
Data di Resoluzione18 Luglio 2013
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 210

ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco GALLO Presidente

- Luigi MAZZELLA Giudice

- Gaetano SILVESTRI ”

- Sabino CASSESE ”

- Giuseppe TESAURO ”

- Paolo Maria NAPOLITANO ”

- Giuseppe FRIGO ”

- Alessandro CRISCUOLO ”

- Paolo GROSSI ”

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Sergio MATTARELLA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 7, comma 1, e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, promosso dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, nel procedimento penale a carico di E.S. con ordinanza del 10 settembre 2012, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 aprile 2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 e pervenuta a questa Corte il 6 novembre 2012 (r.o. n. 268 del 2012), la Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848), questioni di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui tali disposizioni interne operano retroattivamente e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art. 2 del regio decreto 7 giugno 1923, n. 1252, recante «Passaggio della Gazzetta Ufficiale del Regno dalla dipendenza del Ministero dell’interno a quella del Ministero della giustizia e degli affari di culto e norme per la compilazione e la pubblicazione di essa»), era entrato in vigore il citato decreto-legge, con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto.

    Il giudice a quo premette di essere investito di un ricorso avverso un provvedimento del Tribunale di Spoleto, in funzione di giudice dell’esecuzione penale, che aveva rigettato la richiesta del condannato, ai sensi degli artt. 666 e 670 del codice di procedura penale, di sostituzione della pena dell’ergastolo con quella temporanea di trenta anni di reclusione, affermando che «nessuna violazione del principio di legalità di cui all’art. 7 della CEDU era stata accertata, nel caso specifico, dalla Corte EDU, sicché non era sopravvenuto all’esecutività della condanna alcun fatto nuovo».

    La Corte di cassazione rileva che il ricorrente, condannato con sentenza della Corte di assise di Catania, in data 18 luglio 1998, alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, perché dichiarato colpevole di due omicidi volontari e della connessa violazione della normativa sulle armi, aveva proposto appello e che nel corso di tale giudizio era entrata in vigore (2 gennaio 2000) la legge 16 dicembre 1999, n. 479, il cui art. 30, comma 1, lettera b), aveva aggiunto alla fine del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. il seguente periodo: «Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta», reintroducendo così la possibilità per la persona imputata di reati punibili con la pena perpetua di accedere al rito abbreviato.

    Aggiunge la Corte rimettente che il ricorrente, il 12 giugno 2000, nel corso del giudizio di appello, avvalendosi della riapertura dei termini, disposta dall’art. 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, aveva chiesto procedersi con il rito abbreviato, con l’effetto che, in virtù dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. (nel testo vigente in quel momento), la pena dell’ergastolo, con o senza isolamento diurno, andava sostituita con quella di anni trenta di reclusione.

    Prima della conclusione del giudizio d’appello, però, era entrato in vigore il decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, il cui art. 7, nel dichiarato intento di dare una interpretazione autentica al secondo periodo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 479 del 1999, aveva stabilito che l’espressione «pena dell’ergastolo» ivi contenuta doveva intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno e aveva inserito alla fine della stessa disposizione un terzo periodo, secondo il quale «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».

    In applicazione del citato art. 7 la Corte di assise di appello di Catania, con sentenza del 10 luglio 2001 (divenuta irrevocabile il 14 novembre 2003), aveva inflitto al ricorrente la pena dell’ergastolo.

    La Corte di cassazione ricorda che, avverso il provvedimento del Tribunale di Spoleto, in funzione di giudice dell’esecuzione, è stato proposto ricorso, deducendo una violazione di legge, con riferimento agli artt. 6 e 7 della CEDU e 442 cod. proc. pen., nonché la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione.

    Il ricorso è stato assegnato alle sezioni unite in considerazione della speciale importanza della questione, relativa alla possibilità per il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: «Corte EDU») con la sentenza della Grande Camera 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, di sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio abbreviato, con la pena di trenta anni di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole.

    Il rimettente, premesso che le Parti contraenti della CEDU, ai sensi dell’art. 46 della citata Convenzione, si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte di Strasburgo nelle controversie nelle quali sono parti e che lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo del Comitato dei ministri, «le misure generali e/o, se del caso, individuali per porre fine alla violazione constatata, eliminarne le conseguenze e scongiurare ulteriori violazioni analoghe», rileva che la Corte EDU, la quale ha il compito istituzionale di interpretare e applicare la CEDU, quando accerta violazioni della stessa connesse a problemi sistematici e strutturali dell’ordinamento giuridico nazionale, pone in essere una cosiddetta “procedura di sentenza pilota”, che si propone di aiutare gli Stati contraenti a risolvere a livello nazionale i problemi rilevati, in modo da riconoscere alle persone interessate, che versano nella stessa condizione della persona il cui caso è stato specificamente preso in considerazione, i diritti e le libertà convenzionali, offrendo loro la riparazione più rapida, sì da alleggerire il carico della Corte sovranazionale.

    In questa prospettiva, la giurisprudenza della Corte EDU, originariamente finalizzata alla soluzione di specifiche controversie relative a casi concreti, si sarebbe caratterizzata nel tempo «per una evoluzione improntata alla valorizzazione di una funzione paracostituzionale di tutela dell’interesse generale al rispetto del diritto oggettivo», fornendo sempre più spesso, nel rilevare la contrarietà alla CEDU di situazioni interne di portata generale, indicazioni allo Stato responsabile sui rimedi da adottare per rimuovere il contrasto.

    Secondo la Corte di cassazione, di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in precedenza accertate in sede europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 CEDU e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione «non possono essere di ostacolo ad un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza del giudicato», da ritenersi certamente recessivo, allorché risulti compromesso un diritto fondamentale della persona, quale è quello che incide sulla libertà personale.

    Il giudice a quo ricorda il contenuto della sentenza della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, che viene in rilievo nel caso in esame, perché presenta i connotati sostanziali di una “sentenza pilota”, in quanto, pur non fornendo specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, «evidenzia comunque l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non conformità rispetto alla CEDU dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, nella interpretazione...

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