La trasformazione nonviolenta dei conflitti secondo il metodo Transcend

AutoreNanni Salio
Pagine115-132

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@Da Gandhi a Galtung

Nella formazione culturale di Johan Galtung, Gandhi è un riferimento costante sin dagli anni della sua giovinezza. Uno dei primi lavori, insieme al suo maestro Arne Naess, è proprio un testo sull'etica politica della nonviolenza in Gandhi1. In un lavoro successivo, trent'anni dopo, Galtung definisce Gandhi un « conflittologo», fondatore di una «scienza dei conflitti»2. Durante la conferenza di apertura della prima giornata internazionale della nonviolenza, voluta dalle Nazioni Unite, il 2 ottobre 2007 (nella ricorrenza della nascita di Gandhi) a New York, Galtung individua alcuni punti fondamentali dell'insegnamento gandhiano tra i quali:

- Punto 1 : Non temere mai il dialogo. Durante le sue lotte, Gandhi dialogava con chiunque, compreso il viceré di un impero che lui odiava e ciò portò i suoi frutti.

- Punto 2: Non temere mai il conflitto: è un'opportunità piuttosto che un pericolo. Per Gandhi un conflitto era una sfida a conoscersi l'un l'altro, avendo qualcosa in comune e non restando indifferenti tra le parti. Preferiva la violenza alla viltà e il conflitto (la disarmonia) alla totale mancanza di relazione, preferiva ovviamente la nonviolenza del coraggioso e le relaziorelazioni armoniose3.

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Questa interpretazione della straordinaria figura di Gandhi, sulla quale continuano ad accumularsi ogni anno decine e decine di lavori4, ha contribuito a rendere via via più evidente e chiara la dimensione non solo etica ma anche politica della nonviolenza gandhiana. Un passo ulteriore è stato compiuto quando nella ricerca per la pace e nell'educazione alla nonviolenza ci si è resi conto della fondamentale importanza concettuale e pratica dell'idea di conflitto.

@Che cos'è il conflitto

Un numero crescente di autori, ricerche e scuole di pensiero si sta orientando verso l'analisi dei conflitti nella micro e nella macro scala, a partire da una sua immagine intesa come potenzialità al tempo stesso costruttiva e distruttiva. In altre parole, il conflitto non è considerato come sinonimo né di violenza né tanto meno di guerra, ma come condizione esistenziale ineliminabile che caratterizza tutti gli esseri umani e che può sfociare tanto nella crescita creativa e costruttiva di tutte le parti coinvolte, quanto in una situazione negativa, drammaticamente distruttiva.

Tale distinzione è stata esplicitata da tempo in campo psicologico, in particolare con i lavori di Erich Fromm; la differenza che intercorre tra aggressività benigna e maligna, tra violenza e assertività, tra passività e nonviolenza attiva e proattiva (che interviene preventivamente) è ormai accettata sul piano concettuale. Tuttavia nella comune prassi, sia politica sia educativa, permangono ancora incertezze e resistenze: si tende a considerare il conflitto qualcosa di negativo, da evitare, e ci si limita a invocare una generica condizione di concordia che in realtà maschera i conflitti esistenti e ci rende impreparati quando essi esplodono all'improvviso. A maggior ragione, nel linguaggio abitualmente usato dai media, il conflitto è considerato sinonimo di guerra e questa ambiguità semantica contribuisce a creare confusione, frustrazione e senso di impotenza.

È dunque possibile, sulla base degli studi e delle riflessioni in corso, proporre una definizione della nonviolenza non solo etica e filosofica ma operativa,Page 117come la seguente: «La nonviolenza è la capacità di trasformazione costruttiva e creativa dei conflitti dal micro al macro al fine di ridurre il più possibile ogni forma di violenza». Pertanto, essa consiste nell'abilità di trasformare la naturale aggressività umana in forza creativa positiva e non distruttiva.

@Scuole di pensiero

Nel corso del tempo si sono sviluppate varie scuole di pensiero. Si è passati dalla scuola della «risoluzione del conflitto» (conflict resolution), centrata sul concetto chiave dei bisogni delle parti in gioco e sull'idea che si possa giungere a chiudere definitivamente un conflitto - in modo un po' meccanico e rigido -, alla scuola della «gestione del conflitto», centrata sui concetti di potere e di valori e sulla presenza di dinamiche che possono orientare il conflitto verso soluzioni pensate e controllate dall'esterno rispetto alle parti coinvolte.

Un contributo specifico e originale, utile soprattutto a livello educativo e formativo di base, è offerto dalla antropologa belga Pat Patfoort che propone un metodo basato sul modello «maggiore/minore» mediante il quale rappresenta lo squilibrio di potere tra le parti, che bisogna riequilibrare5.

Infine, la terza scuola, di cui Galtung e la rete Transcend6 sono tra i più noti esponenti, preferisce parlare di trasformazione nonviolenta dei conflitti, mettendo in evidenza più che le soluzioni definitive e statiche, la natura relazionale prettamente dinamica ed eternamente cangiante. Oltre alla scuola Galtung/Transcend, altri ricercatori e formatori fanno ormai ampio uso dell'espressione «trasformazione nonviolenta dei conflitti»: si veda, ad esempio, il manuale per la formazione di formatori Trasformazione nonviolenta dei conflitti nell'edizione italiana disponibile in rete7 che sin dal titolo si richiama a questa scuola.

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@Il triangolo del conflitto

Johan Galtung propone un modello interpretativo del conflitto che si basa sul «triangolo del conflitto»8. A ciascun vertice A, B, C corrisponde un aspetto caratteristico che contribuisce a definire il conflitto:

- A sta per atteggiamenti, attitudini, emozioni. È ciò che sta «dentro» i singoli attori, anche a livello inconscio;

- B (behaviour in inglese) è il comportamento, ovvero ciò che sta «fuori» dagli attori, visibile, manifesto;

- C indica la contraddizione, gli scopi, le incompatibilità; riguarda la relazione «tra» gli attori del conflitto.

Un conflitto pienamente sviluppato comprende tutti e tre questi aspetti, di cui solo il comportamento è manifesto, mentre gli altri due sono latenti. Si danno casi in cui sono presenti soltanto una o due delle caratteristiche salienti del conflitto.

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La trasformazione nonviolenta del conflitto è una modalità costruttiva in quanto contribuisce a trovare delle soluzioni che permettano a tutti i confliggenti di ottenere dei benefici e, di conseguenza, il conflitto diventa un'occasione di crescita per ognuno.

Per cercare di capire meglio cosa si intende per «trasformazione nonviolenta dei conflitti», torniamo a quanto già accennato: conflitto non è sinonimo di violenza né di guerra. Indica una situazione di contrapposizione, di contraddizione, tra più attori sociali che intendono perseguire scopi diversi. Il ricorso alla violenza è l'esito negativo nel quale può sfociare un conflitto qualora non si sia capaci di trasformarlo creativamente e funzionalmente per tutte le parti in gioco.

@Conflitti simmetrici e asimmetrici

Prima di procedere ulteriormente nell'analisi del modello Transcend, è bene osservare che esistono due tipi fondamentali di conflitti - simmetrici e asimmetrici - che si distinguono a seconda dei rapporti di potere tra le parti in gioco. Nel primo caso le parti si trovano in una condizione di potere equilibrato, nel secondo la relazione è squilibrata. Gran parte dei conflitti micro (relazionali) sono prevalentemente simmetrici, mentre tra i conflitti macro tendono a prevalere quelli asimmetrici. Una delle tecniche più impiegate nell’affrontare i conflitti simmetrici è la mediazione, che non può essere immediatamente utilizzata nel caso asimmetrico, perché prima occorre intervenire per riequilibrare i rapporti di potere: chi detiene maggior potere, difficilmente accetta di sedersi a un tavolo di mediazione.

Il mediatore è una parte esterna, neutrale o, se si preferisce, equidistante (o equivicina) rispetto alle parti in conflitto, capace di facilitare la comunicazione e la ricerca di soluzioni da parte dei confliggenti stessi. Il suo intervento dev'essere accettato e richiesto da entrambe le parti, sulla base della fiducia. La sua funzione è quella di fare «da specchio» rimandando dall'uno all'altro percezioni, sensazioni, motivazioni che alimentano il conflitto, aiutando a separare e individuare le componenti oggettive da quelle puramente soggettive. Per far ciò deve praticare l'arte dell'ascolto attivo e profondo e utilizzare il dialogo per calarsi nella situazione.

Nei conflitti asimmetrici, le parti esterne svolgono il ruolo fondamentale di intervento, non necessariamente richiesto, per riequilibrare i rapporti diPage 120potere che sono a svantaggio della parte oppressa. Oltre a riequilibrare i rapporti di potere, intervenendo a favore degli oppressi, le parti esterne hanno il compito di ristabilire i canali di comunicazione interrotti; riumanizzare le parti in causa, oppressi e oppressori, accettando su di sé la violenza della repressione in maniera tale da rendere visibile la sofferenza degli oppressi e del gruppo che interviene a loro favore e suscitare atteggiamenti empatici che modifichino attitudini, pregiudizi e comportamenti. Inoltre, si propongono di ridurre il consenso diretto e indiretto che le parti esterne indifferenti danno al sistema di potere degli oppressori e di favorire l'emergere di soluzioni sovraordinate del tipo vinci-vinci che consentano a tutti di risultare vincitore e a nessuno di essere perdente.

@Dal triangolo del conflitto al triangolo della nonviolenza

A ciascuno dei vertici del triangolo del conflitto, Galtung fa corrispondere il vertice di un altro triangolo, quello della nonviolenza.

Al vertice A, quello degli atteggiamenti, corrisponde l'empatia, la capacità di mettersi nei panni dell'altro...

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