«Hanno ragione tutti!» Profili di gestione dei conflitti interculturali ed interreligiosi

AutorePierluigi Consorti
Pagine9-30

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@Premesse. Dalla risoluzione alla gestione dei conflitti

Un giorno due litiganti furono condotti davanti a un giudice saggio. Questi ascoltò molto attentamente le ragioni del primo e alla fine commentò: «Hai ragione!». Ascoltò quindi l'altro con la stessa attenzione, e alla fine ancora commentò «Hai ragione!». Un osservatore prese quindi la parola ed esclamò: «Eccellenza, non possono avere ragione tutti e due!!». Il giudice saggio lo guardò, ci pensò su e sentenziò: «Hai ragione anche tu!»1.

A prima vista questa immagine appare paradossale. Sembra una barzelletta. La nostra abitudine culturale impedisce di concepire che un giudice davvero saggio possa dar ragione a tutti: qualcuno dovrà pure aver torto! Possiamo al più ammettere che " finché un conflitto resta nella disponibilità delle parti in causa - possa darsi che queste giungano a una conclusione che le soddisfi entrambe; lo chiamiamo «ragionevole compromesso». Tuttavia in genere questo risultato non si raggiunge facilmente; tanto che sovente si chiede l'intervento di un terzo - il più delle volte un giudice, in qualche caso un mediatore, talvolta un amico - perché si desidera una definizione univoca del conflitto2. Il terzo prende conoscenza della questione dalle parti stesse, che così polarizzano le rispettive posizioni mettendo in luce ciascuna gli aspetti che tornano a proprio vantaggio perché intendono dimostrare diPage 10aver ragione. Da un conflitto si vuole uscire vittoriosi; perché questo accada l'altra parte dovrà giocoforza risultare perdente. Il giudice - specie se saggio - deve sanzionare questo risultato con la sua autorità. Deve perciò assumersi la responsabilità di dichiarare chi ha ragione e chi torto. Non può certo dar ragione a tutti!

Se lo fa sbaglia. Probabilmente non conosce bene il suo mestiere; magari è stanco. Oppure non è saggio come si dice. Proprio per evitare simili risultati paradossali abbiamo a disposizione diversi apparati di regole che consentono di stabilire da che parte sta la ragione e da quale altra parte il torto. Il punto non è tanto raggiungere un accordo, quanto trovare qualcuno in grado di sanzionare le nostre buone ragioni (facendoci vincere). Rivolgersi a qualcuno " che si suppone imparziale " non implica infatti la rinuncia alle nostre ragioni. Significa piuttosto rafforzarle chiamando in causa un terzo che possa trovare argomenti convincenti o che conosca bene le regole del caso e giunga così a imporre la soluzione che cerchiamo. Per questo i giudici godono di una certa autorità imperativa, che consente loro di imporre la decisione che prendono. Nonostante questo, non c'è alcuna certezza che, emessa una sentenza, le parti finiscano davvero per trovarsi d'accordo. Probabilmente ciascuna continuerà a credere di avere ragione. Quella soccombente penserà di aver subito un torto; talvolta anche quella vittoriosa crederà che non le è stato attribuito tutto il dovuto. Del resto sappiamo che le cause si vincono o si perdono (e la bravura di un avvocato si misura proprio per la sua capacità di vincere «cause perse»!).

Non v'è dubbio che questo schema presenta molti difetti: ma è esattamente quello che succede in un giudizio tradizionale (in questo contesto considero tradizionale anche un giudizio arbitrale o una mediazione rituale). Appare evidente che applicarlo a un conflitto interculturale o interreligioso è semplicemente fuorviante. Persino dannoso. Innanzitutto per l'assenza di regole comuni cui entrambe le parti possono fare riferimento in modo inequivocabile (tanto in senso procedurale che sostanziale): questione non secondaria, che però in questa sede non posso prendere in considerazione perché sposterebbe l'attenzione dall'esame delle parti in causa (che, giova ricordarlo, sono persone umane) verso l'analisi degli strumenti (sostanziali o procedurali) di gestione del conflitto. Questi ultimi si presentano per lo più come prodotti che in un dato contesto sociale " che in genere è sufficientemente omogeneo sotto il profilo culturale - sono utilizzati per risolvere e non per gestire un conflitto. Da que-Page 11sto punto di vista è quasi superfluo rammentare il ruolo che in questo campo dispiega il diritto3, e che tuttavia adesso dobbiamo lasciare sullo sfondo.

È più importante aprire ora una breve parentesi per distinguere tra gestione e soluzione del conflitto. La questione è affrontata in modo esauriente nei saggi che seguono4; perciò qui è sufficiente chiarirne i termini generali, che possiamo semplificare collocando da un lato coloro che immaginano il conflitto come un elemento patologico della vita umana: qualcosa da evitare e quindi da superare. In questo quadro il conflitto si presenta come un nodo da sciogliere a ogni costo: semplicemente va risolto5. Dall'altra parte si pongono coloro che al contrario guardano al conflitto come un elemento fisiologico della vita umana. Qualcosa di naturale che non va necessariamente evitato. Anzi, può essere valorizzato; se ne può cogliere il lato umano6, si può analizzare7, si può persino imparare a gestirlo8.

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Gestire un conflitto significa in buona sostanza saperlo trasformare. Trasformare vuol dire privarlo della carica distruttiva che potenzialmente gli appartiene ogni volta che lo si vuole affrontare con gli strumenti tradizionali della logica «vincere o perdere»9.

In una biblioteca due persone discutono: uno vuole tenere la finestra aperta, l'altro chiusa. Il primo si offre di lasciarla socchiusa; ma l'altro non cede e la vuole proprio chiusa. Interviene la bibliotecaria, che chiede al primo perché vuole la finestra aperta: «Ho bisogno di aria», risponde; l'altro precisa che la vuole chiusa perché non sopporta la corrente «Soffro di reumatismi», spiega. La bibliotecaria ci pensa un po'; quindi va nella stanza accanto e spalanca la finestra: in questo modo nella sala di lettura arriverà aria fresca, ma non ci sarà corrente!10

Come si vede la bibliotecaria ha trasformato il conflitto. Non c'è stato bisogno né di giudici né di ricorrere a regolamenti. Nemmeno è stato necessario dare ragione all'uno e torto all'altro. In effetti, avevano entrambi ragione!

Si può osservare che si tratta di un caso fortunato; o di un conflitto semplice, addirittura banale. Magari la soluzione si deve solo alla creatività della bibliotecaria. In poche parole si può obiettare che non può funzionare sempre così. Tutto al contrario l'esempio della sala di lettura ci porta di fronte all'applicazione pratica di alcuni elementi di fondo che è bene tener sempre presenti quando si vuole affrontare un conflitto, specialmente se di natura culturale o religiosa. Il primo riguarda le «matrioske del conflitto»: proprio come nelle bambole russe, ogni conflitto ne contiene sempre altri più pic-Page 13coli e al tempo stesso è parte di un conflitto più grande. La dimensione non ne modifica la natura né impone di ricorrere a strumenti troppo diversi fra loro11. Così nel caso appena proposto è possibile che i due si conoscessero da tempo e magari non si sopportavano troppo: la questione della finestra era un pretesto per discutere. Magari non era vero che avevano caldo o soffrivano di reumatismi: stavano solo usando argomenti abbastanza validi per sostenere le loro ragioni. E anche la bibliotecaria forse non era troppo intelligente, ha semplicemente usato buon senso, oppure ha saputo ascoltare le loro giuste ragioni e trovare il modo per soddisfarle entrambe...

L'altro elemento di fondo ha a che fare con l'approccio gandhiano alla gestione dei conflitti12. In estrema sintesi, possiamo osservare che ogni conflitto si presenta come un confronto tra due punti di vista, entrambi - in qualche misura - veri. Il punto non è quello di combattere chi esprime una posizione diversa dalla nostra, quanto essere in grado di mettere in relazione questi punti di vista facendo comunicare le persone che li propongono13. Bisogna perciò gestire il conflitto trattando entrambi con il giusto riguardo per le rispettive posizioni: non basta dar ragione a uno e torto all'altro. Bisogna trovare una risposta sufficientemente ampia da soddisfare le ragioni di entrambi.

Possiamo a questo punto chiederci perché qualcuno convinto delle proprie buone ragioni dovrebbe cedere alle ragioni di un altro, senza nemmeno esservi costretto. Ci sono diverse risposte, tutte opinabili (dipende in fondo dai punti di vista). Potremmo richiamare la stanchezza di stare dentro un conflitto; o l'incapacità di vedere una via d'uscita ragionevole; o supporre che sono nel frattempo cambiati i motivi che sostenevano una certa posizione. Possiamo anche pensare che la soluzione di una vittoria imposta non soddisfa davvero (capita spesso che la decisione di un giudice, bensì conforme alla legge, trascuri elementi di verità che comunque sussistono nellaPage 14posizione del perdente) e che anche raggiungere un compromesso lascia scontenti (un po' perdenti e poco vittoriosi). Il motivo vero tuttavia consiste nel rendersi conto che nessuno ha veramente ragione e nessuno veramente torto. Specie nell'ambito di conflitti culturali o religiosi non si tratta di distinguere vinti e vincitori quanto di enfatizzare il conflitto come momento di incontro e di comunicazione con l'altro. Trasformare il conflitto significa renderlo piuttosto un luogo di incontro che di scontro. Dar vita a un dialogo capace di riportare le differenze in un comune orizzonte di comprensibilità. Gestire il conflitto significa saper ascoltare e immedesimarsi nelle ragioni dell'altro. Vuol dire ammettere che di fronte non abbiamo necessariamente un nemico14. Condurre un conflitto secondo queste linee costruisce relazioni di verità che superano il conflitto stesso e innescano insospettate dinamiche creative15.

@Conflitti interculturali e sistemi complessi

Possiamo così tornare all'aneddoto del giudice saggio che dà ragione a tutti. Abbiamo già segnalato come a primo acchito può sembrare un comportamento pilatesco che tradisce l'incapacità o la mancata volontà del...

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