Gli Stati Uniti e il problema dell'immigrazione nella giurisprudenza della Corte Suprema

AutoreRegasto S.F.
Pagine1647-1655
1647
Saverio F. Regasto
GLI STATI UNITI E IL PROBLEMA DELL’IMMIGRAZIONE
NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE SUPREMA
Come è noto, secondo il diritto statunitense, le decisioni politico-istituzionali fede-
rali relative allammissione, alle condizioni di permanenza e allespulsione degli stra-
nieri dal territorio nazionale costituiscono un ambito nel quale la Costituzione non tro-
verebbe diretta applicazione1. In materia di immigrazione, infatti, la Costituzione ame-
ricana del 1787 prevede il solo potere del Congresso di fissare le norme generali per la
naturalizzazione2. Le coordinate essenziali della condizione giuridica dello straniero
sono state invece ricavate in via interpretativa dalla Corte Suprema. Essa individuò una
sorta di illimitato potere federale, il plenary power in questo settore, facendolo deri-
vare, come è stato autorevolmente sostenuto, dal concetto di sovranità nazionale3.
Le principali conseguenze di tale impostazione furono linserimento del potere fe-
derale sullimmigrazione nel contesto della politica estera e della sicurezza nazionale e
la sostanziale sottrazione di questambito al controllo di legittimità costituzionale. In
particolare, nelle procedure relative allingresso nel Paese, così come in quelle riguar-
danti lespulsione degli immigrati, non si applicavano le garanzie costituzionali del
principio di eguaglianza né le garanzie di un equo processo che gli emendamenti V e
XIV della Costituzione americana estendono a tutte le persone presenti sul territorio,
indipendentemente dalla cittadinanza.
Proprio il ripensamento compiuto dalla Corte Suprema della equal protection
clause e del due process of law, hanno segnato il passaggio dallepoca ottocentesca
allattuale stato democratico e sociale4, consolidando il divieto costituzionale di di-
scriminazioni irragionevoli ed introducendo elementi di uguaglianza sostanziale, so-
prattutto per quello che riguarda i rapporti politici e civili, rafforzando le garanzie poste
a presidio dei diritti alla difesa contro indagini e persecuzioni.
La Corte Suprema ha manifestato un certo disagio nellapplicazione delle rigide
categorie elaborate durante lepoca liberale nel campo dellimmigrazione e, a partire
dagli anni 70 del XX secolo, i giudici hanno deciso di applicare la equa l protection
clause contro le discriminazioni attuate dalla legislazione statale nei confronti degli
stranieri a cui è concessa la residenza permanente, almeno per il diritto al lavoro e le
prestazioni sociali. Ma il Congresso americano ha continuato a godere di un potere
pieno ed insindacabile per quanto concerne la naturalizzazione e le condizioni di in-
gresso ed espulsione degli stranieri, potendo decidere, con ampia discrezionalità, in or-
dine sia ai permessi di residenza, sia ai motivi sui quali fondare i provvedimenti di
espulsione. In questi settori, la Corte Suprema ha accettatodi esercitare un controllo
molto limitato, esigendo unicamente che le politiche federali esprimessero una minima
razionalità nel dichiarare le ragioni chiaramente legittime e di buona fede poste alla
base delle scelte governative5.
Solo recentemente la Corte sembra decisa a rivedere i fondamenti di questa dottri-
na, modificando un indirizzo giurisprudenziale che ha prodotto la sostanziale astensio-
1 Cfr. L.H. TRIBE, American constitutional la w, New York, 2000.
2 Art. I, sez. 8, cl. 4.
3 Il leading case è Chae Chang vs. United States, 130 U. S. 581, 1889. Cfr. S. VOLTERRA, Corte Suprema
e assetti sociali negli Stati Uniti dAmerica, Torino, 2004.
4 Cfr. G. BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano, Torino, 1998.
5 Per una prima applicazione di questo standard di controllo vedi Kleindienst vs. Mandel, 408 U. S.
753, 1972 e Fiallo vs. Bell, 430 U. S. 787, 1977.

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