Il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo

AutoreValerio Speziale
Pagine305-362
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Il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo
Valerio Speziale
Norme commentate: art. 1, comma 42 lett.
b), cpv. IV, V, VI ultima parte e VII, l. 28
giugno 2012, n. 92.
SOMMARIO: 1. «Rigidità» delle regole sui licenziamenti e riflessi sull’occupazione. - 2. Le innova-
zioni introdotte dalla legge n. 92 del 2012 ed i vincoli costituzionali nazionali ed europei. - 3.
Le differenze funzionali tra reintegrazione e risarcimento del danno. - 4. Il nuovo art. 18 del-
la legge n. 300 del 1970: profili generali. - 5. Le ragioni sostanziali del licenziamento e
l’onere della prova. - 6. La giusta causa ed il giustificato motivo dopo la riforma. - 7. Segue.
La giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo: le causali. - 8. Il giustificato motivo og-
gettivo per inidoneità fisica o psichica o per violazione dell’art. 2110 c.c. - 9. Il licenziamen-
to individuale illegittimo per ragioni economiche. - 10. La reintegrazione «facoltativa» nel li-
cenziamento per giustificato motivo oggettivo: profili di incostituzionalità. - 11. Il regime
sanzionatorio nel licenziamento illegittimo che non risolve il rapporto di lavoro. - 12. Gli ef-
fetti del licenziamento illegittimo che estingue il rapporto di lavoro. - 13. Conclusioni.
1. La riforma dei licenziamenti individuali intende incrementare la «fles-
sibilità in uscita» e si pone precisi obiettivi economici. Essi sono stati indivi-
duati nella volontà di «incrementare l’occupazione»1, ridurre il dualismo nel
mercato del lavoro tra insiders ed outsiders2, attrarre gli investimenti esteri3,
migliorare la «qualità» dei contratti di lavoro (evitando, con la riduzione
della rigidità nella disciplina in materia, la fuga dal lavoro standard e l’in-
cremento dei contratti precari)4, adeguare il sistema italiano ai modelli di
flexicurity europei5. Questi obiettivi sono stati in verità enunciati anche dal
Premier Monti6 e occorre verificare se, in base alle riflessioni teoriche ed ai
dati empirici a nostra disposizione, tali finalità possono essere effettivamente
raggiunte. Ho già analizzato questi aspetti7, che sono approfonditamente
esaminati in altra parte di questo volume (v. PERAGINE, FABRIZI, RAITANO,
retro, cap. II, Introduzione). Tuttavia qualche riflessione sul punto merita di
essere effettuata.
Il governo ha inteso rispondere alle pressanti sollecitazioni della Banca
Centrale Europea (BCE), espresse nella famosa lettera inviata nell’estate
2011, con la quale si chiedeva «una profonda revisione della disciplina rela-
1 TATARELLI, 2012, 445.
2 ICHINO, 2012, 3; GALANTINO, 2012, 231.
3 ICHINO, 2012, 5.
4 MARESCA, 2012, 416 – 417.
5 TREU, 2012a, 23; ID., 2012b, 15; PELLACANI, 2012, 3.
6 SPEZIALE, 2012, 322; PELLACANI, 2012, 3 - 4, 8.
7 SPEZIALE, 2012, 321 ss.
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tiva alle assunzioni ed ai licenziamenti»8. La comunicazione esprime una
opinione che la BCE sostiene da tempo e che è stata fatta propria da grandi isti-
tuzioni economiche (Ocse, Fondo Monetario Internazionale, Banca d’Italia,
Commissione Europea)9.
Tuttavia, la correlazione tra “rigidità” delle regole in tema di licenzia-
menti e tassi di occupazione o disoccupazione è fortemente contestabile e
questa conclusione ha trovato recente conferma anche nell’Ocse, che ne era
stata la principale sostenitrice10. Inoltre vi sono numerosi studi teorici che
negano la correlazione tra la “protezione” garantita dalla disciplina in materia
di lavoro (licenziamenti inclusi) e livelli di disoccupazione11. Una conclusio-
ne recentemente condivisa anche da Pietro Ichino, che è tra coloro che hanno
maggiormente sottolineato la incidenza negativa della Employment Protection
Legislation sul mercato del lavoro12. D’altra parte, l’indice di rigidità della
disciplina del lavoro elaborato dall’OCSE – modificato nel 2004 con
l’eliminazione del tfr dai costi del licenziamento e che gode «di un’ampia e
riconosciuta reputazione tra gli studiosi di economia13 – classifica l’Italia so-
lo al 18° posto (su 28 paesi) per i licenziamenti individuali sin dagli anni ‘80,
includendo il nostro paese tra quelli più flessibili14. Inoltre, il ranking com-
plessivo dell’Italia – inclusivo dei licenziamenti collettivi e dei contratti tem-
poranei e che ci colloca al 5° posto tra i paesi più industrializzati - è ancora
elevato (2,58%) esclusivamente per i costi connessi alla procedura di consul-
tazione sindacale e all’indennità di mobilità15. La reintegrazione “pesa” «solo
8 Cfr. SPEZIALE, 2012, 523; FERRARESI, 2012, 256; F. CARINCI, 2012b, 531; ORLANDINI, 2012,
653; M. T. CARINCI, 2012a, 542 – 543. Sul contenuto di questa lettera e sul contesto politico socia-
le in cui è nata v. PERULLI, SPEZIALE, 2011, 7 ss.; SPEZIALE, 2012, 523.
9 Per le indicazioni su queste tesi e sugli atti ufficiali in cui esse sono espresse v. SPEZIALE,
2012, 525 ss.; ICHINO, 2012, 5; ORLANDINI, 2012, 651, nt. 18; M. T. CARINCI, 2012a, 536 ss.
10 «Complessivamente le analisi teoriche non forniscono una risposta ben delineata sugli ef-
fetti della legislazione in materia di licenziamenti sui livelli complessivi di occupazione o disoccu-
pazione» (OECD, 2004, 80). L’Organizzazione afferma che la disciplina dei licenziamenti potreb-
be avere effetti negativi sulla occupazione di alcuni gruppi di lavoratori (donne, giovani) (63), so-
stenendo come questa tesi sia affermata da «alcuni studi» (senza, dunque, trovare conforto in tutti
gli studiosi).
11 Per l’indicazione degli studi in materia si rinvia a PERULLI, SPEZIALE, 2012, 14 ss. Si veda-
no anche ARTONI, D’ANTONI, DEL CONTE, LIEBMAN, 2006, 3 ss. e REYNERI, 2011, 137; PERAGINE,
FABRIZI, RAITANO, cap. II, Introduzione (a cui si rimanda per ulteriori indicazioni bibliografiche).
12 ICHINO, 2012, 5. L’autore sottolinea che «la scienza economica non ci offre alcuna eviden-
za del fatto che l’“equilibrio mediterraneo” (ndr: caratterizzato da forti tutele contro i licenziamen-
ti) determini di per sé tassi di disoccupazione più elevati rispetto all’equilibrio tipico dei Paesi nord
europei o a quello di tipo statunitense».
13 DELLARINGA, 2012, 44.
14 I dati Ocse, aggiornati al settembre 2010, sono reperibili in http://www.oecd.org. Si veda-
no, sul punto le osservazioni di REYNERI, 2011, 131-132; PERAGINE, FABRIZI, RAITANO, cap. II,
Introduzione (che sottolineano come l’Italia, nell’indice aggregato di rigidità, è al di sotto della
«maggioranza dei paesi europei»).
15 I dati sono reperibili nel sito indicato nella nt. 6. In particolare, nella parte relativa al
OECD Indicators of Employment Protection, vengono spiegati i criteri di formazione dell’Indice,
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per un quindicesimo del totale dell’indice di protezione del licenziamento in-
dividuale»16 ed ha una influenza modestissima sulla posizione in graduatoria
dell’Italia17. Una riprova ulteriore del carattere fortemente «ideologico» del
dibattito relativo alla rigidità dell’art. 18 anche alla luce della «ortodossia»
delle valutazioni dell’OCSE.
La infondatezza della tesi criticata trova conferma nel turn over italiano
(in sostanza la mobilità in entrata ed uscita dal mercato del lavoro e la crea-
zione/distruzione di occupazione), che é «tra i più elevati in Europa»18. Una
recente ricerca effettuata dal Dipartimento del Tesoro del Ministero del-
l’Economia e delle Finanze e dalla Fondazione Brodolini conferma queste
conclusioni. Dopo aver rilevato la costante «precarizzazione» della nostra
occupazione, il rapporto sottolinea come «il mercato del lavoro italiano sem-
bra caratterizzato da una sorta di “liquidità”…» e da elevata mobilità «piutto-
sto che da una semplice segmentazione tra insiders e outsiders… »19. Sempre
in questo ambito, d’altra parte, non vi sono evidenze empiriche di un turn-
over superiore nelle imprese soggette alla tutela obbligatoria ai sensi dell’art.
8 della l. 604/1966, dove il licenziamento illegittimo é sanzionato soltanto
con una modesta indennità risarcitoria e nelle quali è occupata una quota
consistente di lavoratori. Anzi, un recente studio sugli effetti della l. n. 108
del 1990, che ha eliminato quasi integralmente il recesso ad nutum ed ha in-
crementato i costi da licenziamento nelle imprese con meno di 15 dipendenti,
ha sottolineato il contrario. In questo contesto, l’aumento del firing cost ha
prodotto effetti assai ridotti su accessi ed uscite nelle imprese «con un impat-
to insignificante sull’occupazione netta»20.
che nascono dalla ponderazione di tre indici parziali (licenziamenti individuali, collettivi e contrat-
ti temporanei). Su tali aspetti cfr. anche PERAGINE, FABRIZI, RAITANO, cit.
16 LEONARDI, 2012, 1. Anche DELL’ARINGA rileva come la riforma dell’art. 18, proprio in re-
lazione agli indicatori Ocse, potrebbe migliorare la nostra posizione «nella classifica internaziona-
le della flessibilità dei lavori a tempo indeterminato», anche se «il miglioramento non sarebbe poi
così importante e decisivo» (2012, 43). Si vedano anche le considerazioni critiche di NOGLER,
2012, 666-667.
17 La reintegrazione è uno degli elementi considerati in uno dei tre sub indici del recesso in-
dividuale. «Il reintegro conta per un quinto della sezione “difficoltà di licenziamento”» (LEONARDI,
2012, 1). Le altre «sezioni» (o indici) sono gli oneri procedurali (I) ed il periodo di preavviso e le
indennità economiche in caso di licenziamento illegittimo (II). Le riduzioni di personale ed i con-
tratti temporanei sono considerati a parte, quali fattori ulteriori che determinano il risultato com-
plessivo (2,58), con la percentuale molto elevata (4,88%) per i licenziamenti collettivi.
18 REYNERI, 2006, 2. Questa opinione è sostenuta anche dal CNEL, 2005, 113 ss., che rileva la
presenza di studi che confermano la tesi
(CONTINI, TRIVELLATO, 2005).
19 DIPARTIMENTO DEL TESORO FONDAZIONE G. BRODOLINI, 2012, 8 (dattiloscritto). Su que-
sta ricerca si veda anche l’approfondita analisi di PERAGINE, FABRIZI, RAITANO, cit., che sottoline-
ano come «l’evidenza empirica appare quindi più complessa di quanto facilmente semplificabile
attraverso l’immagine di mero apartheid messo in atto dagli insiders (gli anziani) per penalizzare
gli outsiders (i giovani)».
20 KUGLER, PICA, 2008, 94.

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