Sentenza nº 48 da Constitutional Court (Italy), 17 Febbraio 1994

RelatoreGiuliano Vassalli
Data di Resoluzione17 Febbraio 1994
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 48

ANNO 1994

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 12-quinquies, secondo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, come modificato dall'art. 1 del decreto-legge 17 settembre 1993, n. 369 (Disposizioni urgenti in tema di possesso ingiustificato di valori e di delitti contro la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 novembre 1993, n. 461 e degli artt. 321 e 324 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 2, 19, 16 e 12 novembre 1992 dal Tribunale di Salerno, il 22 e 17 febbraio 1993 dalla Corte di cassazione, il 7 (n. 2 ordinanze) ed il 16 aprile 1993 dal Tribunale di Vibo Valentia, il 6 aprile 1993 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, il 17 giugno 1993 dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere, il 7 aprile 1993 dalla Corte di cassazione, il 17 (n. 2 ordinanze) e 30 giugno 1993 dal Tribunale di Venezia, il 6 luglio 1993 dal Tribunale di Vibo Valentia, il 6 luglio 1993 dal Tribunale di Savona ed il 12 febbraio 1993 dal Tribunale di Reggio Calabria, rispettivamente iscritte ai nn. 21, 87, 125, 198, 207, 228, 336, 337, 338, 389, 399, 552, 571, 572, 600, 651, 669 e 686 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 5, 10, 14, 19, 21, 27, 29, 39, 41, 44, 46 e 47 dell'anno 1993.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 gennaio 1994 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

l. Con quattro ordinanze di identico contenuto (rispettivamente, R.O.21, 87, 125 e 198 del 1993), il Tribunale di Salerno ha sollevato, in riferimento agli artt. 27, secondo comma, 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 12- quinquies, secondo comma, della legge 7 agosto 1992, n. 356, con la quale è stato convertito, con modificazioni, il decreto- legge 8 giugno 1992, n.306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa).

Il Tribunale rileva, anzitutto, che la norma denunciata costruisce una ipotesi di reato proprio nel quale la sussistenza della fattispecie è correlata alla qualità di indagato per una delle ipotesi criminose che la disposizione stessa enumera: una qualità, dunque, tutt'altro che definitiva e che non dovrebbe in alcun modo risaltare in ossequio alla presunzione di innocenza prevista dall'art. 27 della Costituzione, considerato che quella particolare condizione personale potrebbe essere caducata anche in un momento successivo alla condanna per il reato de quo.

Rilievi, questi, che valgono a fortiori nei confronti della persona sottoposta a pro cedimento di prevenzione "quando tale misura è ante delictum".

Sarebbero poi violati gli artt. 3 e 24 della Costituzione giacchè, tenuto conto della struttura del reato, che postula una "mancata giustificazione del possesso legittimo dei beni, strettamente connessa all'inversione dell'onere della prova", risulterebbe compromesso il diritto di difesa in quanto non esercitabile anche attraverso il silenzio, generandosi, al tempo stesso, una disparità di trattamento tra le persone indagate per il reato oggetto di impugnativa e le persone sottoposte ad indagini per gli altri reati.

  1. Solo in parte coincidenti sono invece le censure mosse alla norme de qua dalla Corte di cassazione con ordinanza del 17 febbraio 1993 (R.O. 228 del 1993). Dopo aver osservato, infatti, come le modifiche introdotte dall'art. 5 del d.l. 21 gennaio 1993, n. 14, non abbiano nella sostanza modificato lo status del soggetto attivo, non potendosi quest'ultimo identificare con chi assume la qualità di imputato, la Corte ritiene che la "instabilità processuale" che caratterizza la particolare condizione del soggetto attivo, in sè inidonea a determinare conseguenze di carattere penale, pone la norma in contrasto con il principio di ragionevolezza e logicità, discriminando quel soggetto rispetto a "colui che, seppur titolare di ricchezze sproporzionate, non incappa in un procedimento penale".

    D'altra parte, osserva ancora la Corte, poichè la norma non postula la condanna per i reati presupposti ma unicamente la sottoposizione a procedimento penale, la mancata giustificazione della legittima provenienza dei beni importa una condanna che non deriva da una attività di ricerca delle prove, ma "da un comportamento che la Costituzione garantisce a ogni imputato, attraverso il riconoscimento del diritto di difesa (art. 24, 2o co.) e della presunzione di non colpevolezza (art. 27, 2o co.)". La norma, infine, contrasterebbe con l'art. 42, secondo comma, della Costituzione, in quanto il reato si realizza sulla base della ritenuta sproporzione - che per la genericità del criterio costituisce ulteriore fonte di ingiustificate ineguaglianze - "fra reddito e patrimonio, prescindendo da qualsiasi collegamento immediato con un'attività delinquenziale giudiziariamente accertata".

  2. Con altra ordinanza del 22 febbraio 1993 (R.O. 207 del 1993) la Corte di cassazione, dopo aver richiamato i principii posti a fondamento della sentenza n. 110 del 1968, con la quale venne dichiarata la parziale illegittimità costituzionale dell'art.708 c.p., osserva come nella fattispecie oggetto di denuncia non sia rinvenibile uno "stato" del soggetto attivo che lo diversifichi da chiunque altro si trovi nella medesima situazione oggettiva, posto che la condizione di indagato o di imputato non può certo equipararsi ad un pregresso accerta mento di responsabilità che "giustificherebbe una presunzione di sospetto circa la liceità del possesso" dei beni. Osserva ancora la Corte che la disposizione censurata criminalizza un fatto (acquisizione di beni) che nel momento in cui viene commesso non costituisce reato "almeno in via di presunzione" giacchè manca un precetto "che imponga particolari cautele per colui che agisce non rientrando in categorie sospette, ponendosi inammissibilmente a carico del soggetto stesso l'onere di una prova che deve invece incombere sulla accusa in violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito". Alla stregua dei riferiti rilievi la Corte denuncia, quindi, la violazione degli artt. 3, 24, secondo comma, 25 e 27, secondo comma, della Costituzione.

  3. Con quattro ordinanze di identico contenuto (R.O. 336, 337, 338 e 651 del 1993), il Tribunale di Vibo Valentia ha sollevato analoga questione di legittimità dell'art. 12 quinquies, secondo comma, della legge n. 356 del 1992, "come modificato dall'art. 5 del decreto-legge 21 gennaio 1993, n. 14, reiterato con decreto-legge 23 marzo 1993, n.73", in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione. Facendo proprie le considerazioni poste a fondamento delle ordinanze di rimessione pronunciate dal Tribunale di Salerno e dalla Corte di cassazione, il giudice a quo rileva - per ciò che concerne il dedotto contrasto con l'art. 3 Cost. - che la qualità di indagato, che rappresenta elemento costitutivo del delitto in esame, prescinde irragionevolmente dagli esiti processuali del reato presupposto, cosicchè il condannato e l'assolto in ordine ai "delitti-sorgente" finiscono per subire l'identico trattamento processual-penalistico, con conseguenze "palesemente aberranti" ed inique. Quanto alla dedotta violazione degli artt. 24, secondo comma, e 27, secondo comma, Cost., il tribunale rimettente osserva che la norma impugnata costringe l'inquisito "ad abbandonare ogni comportamento processuale passivo", pur garantito dall'ordinamento, obbligandolo a giustificare la legittima provenienza dei beni, in contrasto col diritto di difendersi anche con il silenzio e con la presunzione di non colpevolezza che assiste ogni imputato e, a fortiori, ogni indagato.

  4. Con ordinanza del 7 aprile 1993 (R.O.552 del 1993), la Corte di cassazione, riportandosi nella sostanza alle considerazioni svolte in altro provvedimento rimessivo con il quale ha sollevato l'identica questione, ha osservato come la fattispecie delineata dall'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n.356, malgrado le successive modifiche apportate dai decreti-legge 21 gennaio 1993, n. 14, e 23 marzo 1993, n. 73 (art. 5), configuri un reato proprio nel quale il soggetto attivo è chiunque si trovi attinto da elementi indizianti non accertati con sentenza definitiva; cosicchè, da un lato, l'eventuale proscioglimento in ordine a quegli indizi non fa venire meno il presupposto soggettivo che la norma censurata richiede, mentre, dall'altro, l'unico parametro oggettivo che la disposizione evoca, è rappresentato dalla sproporzione tra il valore delle disponibilità e il reddito dichiarato, "richiedendosi allo stesso soggetto di fornire le prove della provenienza legittima dei beni".

    Le considerazioni poste a fondamento della sentenza di questa Corte n.110 del 1968, svelano, dunque, secondo il giudice a quo, la fondatezza dei rilievi di incostituzionalità, posto che nessuna "presunzione di sospetto" circa la legittima disponibilità dei beni può trarsi dalla semplice pendenza di un procedimento penale.

    Rileva ancora la Corte rimettente che facendosi dipendere il presupposto soggettivo dal verificarsi di una condizione futura, incerta e imprevedibile, quale è l'assunzione della qualità di indagato o imputato, ne deriva che il soggetto non è messo nella...

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