Sentenza nº 34 da Constitutional Court (Italy), 17 Febbraio 2022

Data di Resoluzione17 Febbraio 2022
EmittenteConstitutional Court (Italy)

Sentenza n. 34 del 2022

SENTENZA N. 34

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), promosso dal Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra J. C.C. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e altro, con ordinanza del 29 gennaio 2021, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti gli atti di costituzione di J. C.C. e dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica dell’11 gennaio 2022 la Giudice relatrice Daria de Pretis;

uditi gli avvocati Alberto Guariso per J. C.C., Mauro Sferrazza per l’INPS e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio dell’11 gennaio 2022.

Ritenuto in fatto

  1. – Il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di inclusione (di seguito, anche: ReI), richiedeva agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», in riferimento agli artt. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonché in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

    Il giudizio a quo è stato promosso da J. C.C., cittadina boliviana, con ricorso proposto ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), contro il Comune di Bergamo e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS).

    La ricorrente, soggiornante in Italia dal 2010, il 6 marzo 2018 aveva presentato al Comune domanda finalizzata ad ottenere il reddito di inclusione. Tale domanda è stata respinta per mancato uso delle modalità telematiche e per il mancato possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo. La ricorrente riferiva di essere in possesso di tutti i requisiti previsti dal d.lgs. n. 147 del 2017 per beneficiare del reddito di inclusione, ad eccezione del permesso di soggiorno di lungo periodo, ed eccepiva in giudizio l’illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 3 di tale decreto.

    Il rimettente argomenta l’ammissibilità dell’azione proposta, osservando che si tratta di azione contro la discriminazione e non di azione in materia previdenziale: la domanda della ricorrente «ha ad oggetto l’accertamento della discriminazione, la sua cessazione, la rimozione degli effetti e, quale conseguenza di ciò, l’erogazione della prestazione, […] per cui correttamente è stato attivato il procedimento» di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011. Non osterebbe all’ammissibilità, poi, il fatto che il Comune abbia applicato una norma legislativa «in quanto la nozione di discriminazione accolta dalla normativa europea e dalla legislazione nazionale è di tipo oggettivo e ha riguardo all’effetto pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, indipendentemente dalla motivazione e dall’intenzione di chi li pone in essere».

    Il giudice a quo ritiene dirimente, per la soluzione della controversia, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017, «vigente al momento della richiesta della prestazione», là dove richiede agli stranieri il permesso di soggiorno di lungo periodo, «escludendo gli stranieri in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi)».

    Il rimettente si sofferma sull’applicabilità della disposizione censurata nonostante la sua abrogazione a decorrere dal 1° aprile 2019, ad opera dell’art. 11 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26. Il giudice a quo illustra la norma transitoria, contenuta nell’art. 13 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, e osserva che i requisiti del diritto a un beneficio, previsto da una norma poi abrogata, vanno verificati con riferimento al momento della domanda; a tale proposito, menziona la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima, del 19 febbraio 2019, n. 4890, che ha affermato analogo criterio per le domande di permesso umanitario presentate prima dell’entrata in vigore del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132. Precisa inoltre che l’abrogazione del reddito di inclusione da parte del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, non è stata disposta con efficacia retroattiva, e che l’accoglimento del ricorso comporterebbe il riconoscimento della prestazione “ora per allora”, ovvero dall’aprile 2018 fino al 31 marzo 2019.

    Sempre in punto di rilevanza, il giudice a quo rileva che non sono in discussione tutti gli altri requisiti per l’accesso al beneficio, dal momento che la ricorrente «risultava residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni» e sussistevano, altresì, i requisiti relativi alla condizione economica e alla composizione del nucleo familiare. Né rileverebbe il fatto che la domanda sia stata presentata in forma cartacea, anziché telematicamente, «trattandosi solo di irregolarità formale, peraltro imputabile alla strutturazione del sistema, che non incide sul riconoscimento della prestazione, ove sussista il diritto».

    Il rimettente ricorda che il reddito di inclusione era «una misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà» (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 147 del 2017) e ne illustra i requisiti, sia economici sia attinenti al nucleo familiare. Secondo il giudice a quo, il reddito di inclusione è una prestazione essenziale, volta al soddisfacimento di «“bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana»: di fronte a tali prestazioni, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti si porrebbe in contrasto con l’art. 14 CEDU (vengono citate le sentenze n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010 di questa Corte). Il reddito di inclusione sarebbe una prestazione essenziale perché è finalizzato all’affrancamento da una condizione di «vera e propria povertà» e alla garanzia del «diritto ad un’esistenza libera e dignitosa», nell’ottica di una «lettura coordinata degli artt. 2, 3 e 38 Cost.». Il rimettente ricorda che numerose norme costituzionali si pongono l’obiettivo di contrastare la povertà economica in quanto ostacolo al godimento dei diritti fondamentali; inoltre, in base all’art. 2, comma 13, del d.lgs. n. 147 del 2017 il reddito di inclusione costituiva «livello essenziale delle prestazioni […] nel limite delle risorse disponibili nel Fondo Povertà».

    Lo Stato sarebbe soggetto a controllo giurisdizionale nel momento in cui limita il godimento di prestazioni essenziali e di diritti fondamentali; nel caso di specie, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3, 31, 38, 117 Cost., nonché con l’art. 14 CEDU.

    In ogni caso, anche qualora il reddito di inclusione fosse considerato «prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali», la limitazione delle prestazioni sociali «deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.» e tale principio può ritenersi rispettato solo qualora «sussista una ragionevole correlazione tra la richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state previste» (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 166 e n. 107 del 2018). Il giudice a quo rileva che la disciplina in questione già contemplava «il requisito del radicamento», essendo necessario – per ottenere il beneficio – essere «residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni al momento di presentazione della domanda» (art. 3, comma 1, lettera a, numero 2, d.lgs. n. 147 del 2017). L’esclusione degli stranieri sprovvisti del permesso di soggiorno di lungo periodo andrebbe «a penalizzare proprio i nuclei familiari più bisognosi, tradendo l’intento dichiarato dal legislatore». Infatti, molto spesso gli stranieri non riescono a ottenere il permesso in questione «in quanto titolari di un reddito inferiore a quello (pur basso) prescritto a tal fine...

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