n. 116 SENTENZA 3 - 5 giugno 2013 -

ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, come modificato dall'articolo 24, comma 31-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, promossi dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, con ordinanza del 20 luglio 2012, e dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, con due ordinanze del 25 febbraio 2013, rispettivamente iscritte al n. 254 del registro ordinanze 2012 ed ai nn. 55 e 56 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2012 e n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2013. Visti gli atti di costituzione di Bozzi Giuseppe ed altri, dell'INPS, nella qualita' di successore ex lege dell'INPDAP, nonche' gli atti di intervento del Gruppo Romano Giornalisti Pensionati e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 7 maggio 2013 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi gli avvocati Vincenzo Greco per il Gruppo Romano Giornalisti Pensionati, Giovanni C. Sciacca per Bozzi Giuseppe ed altri, Filippo Mangiapane per l'INPS, nella qualita' di successore ex lege dell'INPDAP e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, in composizione monocratica, con ordinanza del 20 luglio 2012, iscritta al reg. ord. n. 254 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 36, 53, 42, terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. 1.1.- Il rimettente premette che il ricorrente - magistrato Presidente della Corte dei conti in quiescenza dal 21 dicembre 2007, titolare di pensione diretta di importo superiore a euro 90.000,00 annui - ha chiesto il riconoscimento del proprio diritto di percepire il trattamento pensionistico ordinario, privo delle decurtazioni introdotte dall'art. 18, comma 22-bis, del d.l. 6 luglio n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, nonche' la condanna dell'Amministrazione ai conseguenti pagamenti. La Corte ricorda, inoltre, come a sostegno del ricorso sia stata dedotta l'illegittimita' costituzionale della citata norma, per violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 108, 111 e 113 Cost. 1.2.- In punto di rilevanza, il rimettente assume in primo luogo che il ricorso ha un petitum separato e distinto dalla questione di costituzionalita', sul quale e' chiamato, in ragione della propria competenza, a decidere, trattandosi di una domanda tesa ad ottenere il riconoscimento del diritto a conservare il proprio trattamento pensionistico senza le decurtazioni disposte dal citato comma 22-bis. Inoltre, osserva che, laddove non si dubitasse della compatibilita' costituzionale della norma, la pretesa dovrebbe senz'altro essere dichiarata infondata, in quanto le decurtazioni stipendiali censurate risultano fissate direttamente ed inderogabilmente dalle «stringenti ed inequivoche disposizioni di legge applicate doverosamente dall'amministrazione datrice di lavoro», senza alcuna possibilita' di interpretazioni alternative. 1.3.- Cio' posto, il giudice a quo osserva che la disposizione impugnata si colloca nel quadro di una serie di previsioni finalizzate al contenimento della spesa pubblica ed alla stabilizzazione finanziaria, in particolare in materia previdenziale, che impone ai pensionati pubblici sacrifici di considerevole entita'. 1.4.- In primo luogo, secondo la Corte dei conti, la norma in questione si configurerebbe come prestazione patrimoniale imposta, ai sensi dell'art. 23 Cost., nonche' come prelievo forzoso di natura tributaria, non rispettoso, tuttavia, dei principi di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.) correlati a quello di capacita' contributiva (art. 53 Cost.). A suo giudizio, infatti, l'imposizione del sacrificio economico individuale avrebbe tutte le caratteristiche del prelievo tributario, perche' realizzato attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, il cui gettito e' destinato al fabbisogno finanziario dello Stato sotto forma di risparmio di spesa (richiama in proposito la sentenza di questa Corte n. 11 del 1995). Al di la' del nomen iuris utilizzato, dunque, si tratterebbe di un prelievo forzoso di somme stipendiali, privo di "sinallagmaticita'" e destinato a copertura di fabbisogni finanziari indifferenziati dello Stato apparato. Il rimettente osserva, tuttavia, che tale prestazione graverebbe soltanto su «alcune categorie di pensionati, lasciando inspiegabilmente ed illogicamente indenni tutte le altre categorie dei settori previdenziali privato ed autonomo: categorie tutte caratterizzate dall'unitarieta' riconducibile al principio costituzionale di tutela dei pensionati». Non si tratterebbe di una mera rideterminazione o "raffreddamento" dei livelli previdenziali pubblici, in astratto possibile essendo acquisito il principio della possibilita' di una disciplina differenziata del rapporto previdenziale pubblico rispetto a quello privato, ma di una vera e propria imposta, gravante non su tutti i pensionati, ma esclusivamente su quelli pubblici. Tale disciplina si porrebbe in contrasto con il principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost., coordinato con i principi di eguaglianza, parita' di trattamento e capacita' contributiva (artt. 3 e 53 Cost.). Il rimettente ricorda in proposito che la giurisprudenza di questa Corte, su analoga questione relativa alla "manovra di bilancio" approntata con il decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanita' e di pubblico impiego, nonche' disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438 (ordinanze n. 341 del 2000 e n. 299 del 1999), aveva precisato che il sacrificio economico richiesto dal provvedimento legislativo deve avere carattere eccezionale, transeunte, non arbitrario e consentaneo allo scopo prefisso, sicche' non solo deve essere limitato ad un ristretto periodo di tempo, ma deve anche essere razionalmente ripartito fra categorie diverse di cittadini. La norma impugnata avrebbe violato, pertanto, i parametri costituzionali invocati (artt. 3, 36 e 53 Cost.) non solo sotto il profilo della sproporzione ed irrazionalita' della misura, ma anche specificamente sotto il profilo della disparita' di trattamento, in quanto non sarebbero state colpite le altre categorie di pensionati, pur se percettori di elevati trattamenti, e i contribuenti in generale titolari degli stessi redditi. Il prelievo in questione, in definitiva, non solo non sarebbe idoneo a garantire risparmi di spesa o introiti tali da realizzare significativamente l'obiettivo di stabilizzazione della finanza pubblica, ma si presenterebbe come irrazionale e discriminatorio, essendo diretto a colpire una limitata categoria di soggetti, anziche' la collettivita' nel suo insieme, nel rispetto del principio di proporzionalita', in violazione quindi sia del principio solidaristico, che di quello di uguaglianza e di assoggettamento al prelievo fiscale in proporzione alla capacita' retributiva. Richiamando, poi, testualmente precedenti ordinanze di rimessione di altri giudici, il rimettente afferma che il legislatore avrebbe «inspiegabilmente ed ingiustificatamente aumentato gli squilibri, trascurando del tutto di colpire le ricchezze evase al fisco e persino gli introiti derivanti da rendite ben conosciute (quali le rendite catastali e finanziarie), per concentrarsi su una fascia specifica di pensionati, colpevoli unicamente di appartenere al settore pubblico e di avere redditi facilmente accertabili ed ancora piu' facilmente "attaccabili"». 1.5.- La norma censurata infine, secondo il giudice a quo, si porrebbe anche in contrasto con gli artt. 42, terzo comma, e 97, primo comma, Cost., in quanto realizzerebbe per via legislativa un intervento ablatorio della proprieta', colpendo una determinata categoria di soggetti, in assenza di previa valutazione degli interessi coinvolti e senza che sia prevista la corresponsione di un'indennita' di ristoro, in quanto, «l'accurato esame degli interessi in gioco e la ponderata decisione della misura e delle modalita' del sacrificio secondo il principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) non puo' non valere anche per il legislatore-amministratore». 2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione. La manovra di finanza pubblica oggi censurata sarebbe, a suo giudizio, intervenuta in maniera non dissimile dalla manovra del 1993 (art. 7 del d.l. n. 384 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 438 del 1992), rispetto alla quale la Corte costituzionale aveva dichiarato analoghe questioni manifestamente infondate (ordinanza n. 299 del 1990). In quelle occasioni questa Corte aveva affermato che norme di tale natura non si ponevano in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto intervenute «in un momento assai delicato per la vita economico-finanziaria del paese». Inoltre, a sostegno dell'infondatezza della questione, l'Avvocatura dello Stato ricorda altresi' che anche la sentenza n. 223 del 2012 ha ribadito la possibilita' dell'utilizzo necessario da parte del legislatore di strumenti eccezionali in situazioni di difficolta' economica, «nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento...

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