La nuova disciplina della partecipazione italiana al processo di formazione e di attuazione del diritto comunitario

AutoreSalvatore Vuoto
Pagine380-398

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@1. Rilievi introduttivi

Dopo lunghi e approfonditi lavori preparatori, che si sono complessivamente protratti per più di un decennio, nella seconda metà della XIV legislatura il Parlamento ha approvato la legge 4 febbraio 2005, n. 11, recante "Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari". L'esigenza di un nuovo provvedimento legislativo che si occupasse della materia era fortemente e diffusamente avvertita, per una pluralità di ragioni. Occorreva - innanzitutto - introdurre una disciplina che tenesse conto del cambiamento del quadro istituzionale conseguente alla riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione, ai cui sensi - tra l'altro - se lo Stato da un lato ha potestà legislativa esclusiva nei rapporti con l'Unione europea (art. 117, c. 2), le Regioni dall'altro hanno competenza legislativa concorrente nei rapporti che esse mantengono con l'Unione europea (art. 117, c. 3), partecipano nelle materie di propria competenza alle decisioni per la formazione degli atti normativi comunitari e provvedono alla relativa esecuzione nel rispetto delle procedure fissate dalla legge dello Stato, alla quale spetta altresì disciplinare il potere sostitutivo per i casi di inadempienza (art. 117, c. 5). Il bisogno di addivenire a una nuova regolamentazione si collegava alla necessità, inoltre, di fornire un riordino e un consolidamento delle disposizioni contenute nella l. 86/1989, nota anche come "legge La Pergola". Tale legge, che per oltre quindici anni ha rappresentato il punto di riferimento per la disciplina della materia in esame, era infatti venuta a subire - rispetto all'originario impianto - significative e ripetute modificazioni e integrazioni, operate da varie leggi ad essa successive. Piuttosto che intervenire ulte- Page 380 riormente sul testo della "legge La Pergola", e scartata l'idea iniziale di operare la riforma in questione inserendola in un più generale ordito legislativo (oggi rappresentato - come si sa - dalla l. 131/2003, conosciuta pure come "legge La Loggia") finalizzato all'attuazione del nuovo titolo V, il Parlamento ha quindi deciso di introdurre una nuova disciplina organica e specifica della partecipazione italiana ai processi di formazione e di attuazione del diritto europeo, la cui entrata in vigore ha determinato l'abrogazione totale della "legge La Pergola". L'evidenziata vocazione sistematica della l. 11/2005 pare testimoniata da quanto in essa si prevede all'art. 21, il quale stabilisce che "ai fini dell'attuazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, le disposizioni della [legge stessa] possono essere modificate, derogate, sospese o abrogate da successive leggi solo attraverso l'esplicita indicazione delle disposizioni da modificare, derogare, sospendere o abrogare".

Nonostante la volontà parlamentare di "concentrare" in un solo atto legislativo tutta la regolamentazione della materia in discorso, va subito detto - ad ogni modo - che la l. 11/2005 non risulta essere l'unica fonte che di essa si occupa. Tralasciando ogni riferimento alle norme di livello costituzionale e a quelle contenute nei regolamenti delle due Camere, a evidenziare questo dato valgono alcune delle previsioni della medesima l. 11/2005. Tra esse, possono specialmente ricordarsi il comma 7 dell'art. 5, il quale richiama la disciplina dell'art. 3 del d.lgs. 300/1999, e il comma 12 dello stesso art. 5, il quale mantiene "fermo" quanto previsto dall'art. 5 della l. 131/2003. Da questi e altri riferimenti o rinvii presenti nella l. 11/2005 si ricava, in rapida sintesi, che quest'ultima regolamenta in maniera esaustiva soltanto le procedure di esecuzione degli obblighi comunitari (la c.d. fase "discendente" del processo normativo europeo), laddove il complesso della disciplina relativa ai meccanismi di partecipazione dei soggetti istituzionali italiani alla formazione del diritto comunitario (la c.d. fase "ascendente" del processo suddetto) continua a derivare da una pluralità di fonti legislative, la lettura coordinata delle quali non manca talora di presentare - peraltro - qualche difficoltà.

Al di là degli aspetti appena segnalati, ciò che - da un punto di vista più strettamente sostanziale - occorre sottolineare è il fatto che le soluzioni adottate con la l. 11/2005 ricalcano in larga parte quelle operanti sotto il vigore della precedente disciplina, sì che in dottrina taluno ha parlato della nuova legge "come una sorta di testo unico di riordino". Tale impressione pare fondata soprattutto per quanto attiene alla fase discendente, la cui regolamentazione continua ad essere (opportunamente) imperniata sullo strumento della "legge comunitaria" annuale e recepisce - sul terreno dell'attuazione della riforma del titolo V - meccanismi già sperimentati nella prassi legislativa degli ultimi anni. Non mancano però nella recente disciplina alcune rilevanti novità, che riguardano in particolare la fase ascendente e - all'interno di questa - specialmente il ruolo delle Regioni nel processo di elaborazione della normativa europea. Certi contenuti della l. 11/2005 sono tali, d'altra parte, da incidere sensibilmente anche sulle competenze di organi statali, nonché sulle procedure necessarie per l'esercizio delle stesse.

In via del tutto generale, può dirsi che l'ispirazione "conservativa" della l. 11/2005 si scorge - oltre che nel mantenimento della "legge comunitaria" come veicolo privilegiato per l'esecuzione degli obblighi comunitari - nel persistente ruolo centrale che il legislatore riserva in capo all'Esecutivo nazionale, il quale resta titolare di tutta una serie di prerogative e poteri che valgono a controbilanciare fortemente le nuove competenze che la l. 11/2005 assegna al Parlamento e alle Regioni, ai fini di una loro più attiva e consa- Page 381 pevole partecipazione ai processi decisionali dell'Unione. Sempre su un piano generale, va osservato che l'articolato complessivo della l. 11/2005 risulta chiaramente pervaso, d'altro canto, dall'intenzione di realizzare - almeno per quanto concerne la fase ascendente - un largo coinvolgimento dei livelli di governo regionali e locali. Ciò si ricava esplicitamente da quanto la l. 11/2005 prevede all'art. 1, c. 1, nel quale si àncora la disciplina della partecipazione italiana ai processi di produzione e attuazione del diritto comunitario ai "principi di sussidiarietà, di proporzionalità, di efficienza, di trasparenza e di partecipazione democratica" (la legge, inopportunamente, non richiama invece il principio di "leale collaborazione", da tempo indicato dalla Corte costituzionale come uno dei principi finalizzati a governare i rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali).

Nelle pagine che seguono si illustreranno i tratti salienti della disciplina introdotta dalla l. 11/2005, cercando di metterne in luce soprattutto gli elementi di novità. In questa direzione, si suddividerà l'esposizione in due parti, dedicate la prima alla fase ascendente e la seconda alla fase discendente del processo normativo europeo. Tale schema espositivo risponde a un'evidente esigenza logica e viene tendenzialmente a coincidere, peraltro, con l'ordine attraverso il quale si sviluppa l'articolato della legge medesima.

@2. La creazione del Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE)

Tra le novità relative alla fase ascendente, merita dapprima segnalare la creazione del Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (di seguito indicato con l'acronimo CIACE), istituito e disciplinato dall'art. 2 della l. 11/2005. Le finalità di tale creazione riguardano, per la verità, anche la fase discendente del processo normativo comunitario. È preferibile trattare subito del CIACE, tuttavia, poiché la sua attività è concepita dalla legge fin dal "processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione" degli atti dell'Unione.

L'introduzione di questo nuovo organo ha come ratio quella di approntare un più efficace coordinamento tra i vari soggetti istituzionali italiani che, a vario titolo, risultano interessati dai meccanismi decisionali europei. Come autorevole dottrina ha sottolineato, un'esigenza siffatta può farsi direttamente derivare dalla struttura del Consiglio dell'Unione europea, l'organo sovranazionale titolare del potere normativo la cui composizione - come si sa - varia di volta in volta, coinvolgendo per ciascuno degli Stati membri il ministro competente in relazione alla materia trattata. Potendo verificarsi che tale materia, pur essendo "prevalente" rispetto al contenuto dell'atto comunitario da adottare, arrivi indirettamente a investire anche ambiti materiali diversi da quello "principale", può capitare - infatti - che non tutti gli interessi coinvolti da una certa decisione vengano adeguatamente presi in considerazione, causando inconvenienti di natura sia pratica che politica. Tali difetti di coordinamento vengono inevitabilmente a ripercuotersi sul piano dell'ordinamento interno, dove il complesso delle varie amministrazioni nazionali non riesce quindi né a contribuire ai, né ad avere una percezione completa dei, processi di produzione del diritto europeo. Data l'evidente e stretta connessione tra la fase ascendente e la fase discendente di questi processi, una proficua interazione tra le suddette amministrazioni, operante già nel momento della formazione delle politiche europee, costituisce così un'importante premessa per una tempestiva e corretta esecuzione degli obblighi comunitari.

Il CIACE è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, e viene convocato e presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal Ministro per le politiche comunitarie. Del Comitato fanno stabilmente parte, oltre a queste due ultime figure, il Page 382 Ministro per gli affari esteri e il Ministro per gli affari regionali. Ad essi si affiancano poi altri ministri, che risultano...

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