Verso una costituzione europea?

AutorePaolo Passaglia
Pagine399-417

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@1. Qualche cenno introduttivo sulla storia dell'integrazione europea

Nella storia della cultura europea degli ultimi tre secoli, l'idea di una Europa unita ricorre in molti pensatori, tanto da potersi probabilmente affermare che l'idea fosse viva già nel momento in cui, con la pace di Westfalia del 1648, si andavano strutturando definitivamente gli Stati nazionali.

Una siffatta concezione, ovviamente, non nasceva dal nulla, ma si radicava nel riecheggiamento dell'ideale universalistico che aveva caratterizzato buona parte del Medioevo. Soltanto nel XVIII secolo, tuttavia, l'anelito al superamento del particolarismo si manifestò in maniera diffusa, con il prendere corpo del cosmopolitismo di matrice illuminista. In questa prospettiva, per la compiutezza del suo pensiero, merita un cenno, quanto meno, Immanuel Kant, il quale, nel suo saggio dal titolo Per la pace perpetua (1795), sostenne che una pace duratura sul continente europeo sarebbe stata possibile soltanto nel momento in cui si fosse costituita una federazione di Stati.

Se questa - come si vedrà - è una delle matrici fondamentali dell'unità europea, si spiega il motivo per il quale, a partire dalla fine del XIX secolo, mentre le guerre in Europa si succedevano, le idee "federaliste" vedevano un fermento sino a quel momento inusitato.

Chiusi nell'empireo della teoria, questi fermenti stentarono, tuttavia, a trovare pratica attuazione. Alla fine della prima guerra mondiale, infatti, il flebile internazionalismo che si tradusse nella Società delle nazioni - l'antesignana delle Nazioni unite, destinata a una rapida eutanasia - venne soverchiato dallo spirito con il quale venne redatto il Trattato di pace di Versailles, uno spirito sintetizzabile nella volontà di rendere innocua la nazione che della guerra era stata la causa. Una Germania in ginocchio - si pensava - avrebbe garantito, con la indiscutibile preponderanza delle nazioni vittoriose, una pace duratura: donde, per un verso, la previsione di sanzioni a titolo di risarcimento dei danni causati tali da affossare ogni possibile revanscismo e, per l'altro, la sottrazione alla sovranità dello Stato tedesco di territori strategicamente ed economicamente essenziali.

In concreto, il Trattato di Versailles fu talmente efficace nel raggiungere l'obiettivo prefissato da rappresentare, in un certo qual modo, la premessa di quello che sarebbe accaduto in Germania durante gli anni trenta: il malcontento popolare per l'estrema dif- Page 400 ficoltà economico-politica in cui versava lo Stato venne cavalcato da Hitler e dal suo nazionalsocialismo, con i ben noti risultati.

Alla fine della seconda guerra mondiale, gli insegnamenti provenienti dal primo dopoguerra non potevano restare inascoltati. La pace duratura in Europa venne così perseguita seguendo direttrici profondamente diverse dal passato, e cioè mediante una integrazione tra le nazioni, volta a superare l'ideologia che della guerra era stata alla base.

In questa prospettiva, si confrontavano due impostazioni divergenti nel metodo, anche se tendenzialmente (nel lungo periodo) congruenti nei fini.

Da un lato, si propugnava una federazione europea. Già nel 1941, con il Manifesto di Ventotene, Altiero Spinelli e altri avevano disegnato una Europa la cui carta politica non avrebbe più dovuto connotarsi per la molteplicità di colori che traduceva la molteplicità di Stati sovrani: a sostituirla, un unico colore, corrispondente a quello di uno Stato, inevitabilmente composito (anzi, fortemente rispettoso delle identità storiche dei singoli territori), ma espressione di unità sulle grandi scelte che il futuro riservava.

Una visione diversa era quella proposta da Jean Monnet, consigliere del ministro degli esteri francese, Robert Schumann, a cavallo tra gli anni quaranta e gli anni cin- quanta. Bollate come velleitarie le tesi federaliste, veniva seguita una impostazione di tipo "funzionalista", declinata in una politica definibile come "dei piccoli passi", diretta a creare una solidarietà di fondo tra le due principali contendenti dei passati ottant'anni, la Francia e la Germania (combattutesi nel 1870, e poi nelle due guerre mondiali).

Il Governo francese propose di concentrare immediatamente gli sforzi in tal senso su un punto limitato, ma decisivo: il mettere in comune, tra Francia e Germania occidentale, il carbone e l'acciaio, nel quadro di una organizzazione - la Comunità economica del carbone e dell'acciaio (CECA) - alla quale potessero aderire anche altri paesi europei (ciò che avrebbe condotto all'estensione della Comunità anche all'Italia e ai tre paesi del Benelux, cioè l'Olanda, il Belgio e il Lussemburgo). Si sarebbe in tal modo garantita la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, privando al contempo le singole nazioni della disponibilità esclusiva di materie prime indispensabili a sostenere ogni sforzo bellico.

Questo primo passo, compiuto con il Trattato istitutivo della CECA del 1951, avrebbe dato avvio a un processo di integrazione che si sarebbe connotato costantemente in chiave funzionalista. Ne sono dimostrazione, non solo i risultati conseguiti, ma anche i fallimenti conosciuti. Tra questi ultimi, uno dei più significativi fu certamente il naufragio del progetto di una Comunità europea di difesa (CED), che, nel 1954, si incagliò nell'opposizione dell'Assemblea nazionale francese, e che, per il suo essere troppo "impegnativo" (ciò che è testimoniato dalle difficoltà insormontabili che ancor oggi si frappongono a un progetto di questo respiro), mal si conciliava con la politica dei piccoli passi.

Contro ogni logica apparente, dai fallimenti il processo di integrazione europea ha però sempre tratto il vigore necessario per compiere nuovi progressi. Così, già nel 1957, per iniziativa (non più dell'asse franco-tedesco, ma) del Governo belga, si concepirono due nuove comunità, estese ai paesi membri della CECA: la Comunità europea dell'energia atomica (l'EURATOM) e, soprattutto, la Comunità economica europea (la CEE). Queste due comunità, che divennero operative nel 1958, sancivano la crescente compenetrazione degli interessi dei diversi Stati membri: in particolare, l'EURATOM rispondeva all'esigenza (avvertita soprattutto dalla Francia) di fronteggiare eventuali difficoltà Page 401 nell'approvvigionamento di fonti energetiche che la crisi del canale di Suez del 1956 aveva fatto balenare, mentre la CEE assecondava il bisogno (avvertito soprattutto da parte della Germania occidentale) di ampliare il mercato interno, onde coadiuvare lo sviluppo economico che animava la ricostruzione post-bellica.

La creazione della CEE non era, ovviamente, un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Può dirsi, infatti, che la politica dei piccoli passi si tradusse in una attuazione progressiva (in ben dodici anni) delle innovazioni contenute nei trattati istitutivi (l'abolizione totale dei dazi doganali tra i sei paesi membri, la libera circolazione delle merci e delle persone, la politica economica comune verso i paesi terzi ecc.). Ciò nondimeno, numerosi e di particolare importanza furono i problemi gestionali che le Comunità si trovarono a dover affrontare, culminati in periodi di vera e propria impasse politica e istituzionale (il momento probabilmente più delicato, in questo senso, fu quello nel quale la Francia gollista, con la politica della "sedia vuota", bloccò, a metà degli anni sessanta, ogni decisione comunitaria attraverso l'astensione dai lavori degli organi di Bruxelles).

Nel tentativo di operare una schematizzazione (anche a rischio che questa si riveli eccessiva), può dirsi che la storia del processo di integrazione europea, dagli anni ses- santa in poi, si è contraddistinta per due processi paralleli: da un lato, l'allargamento dei confini delle Comunità, con l'ingresso di nuovi Stati membri, dall'altro l'ampliamento delle funzioni delle Comunità stesse (e, poi, dell'Unione europea).

Sotto il primo profilo, gli anni settanta si caratterizzarono per l'ingresso, nel 1973, della Danimarca, dell'Irlanda e, soprattutto, del Regno Unito (che nel frattempo aveva abbandonato le precedenti velleità di autonoma potenza mondiale veicolate dalla creazione del Commonwealth). Un quarto paese, la Norvegia, aveva partecipato ai negoziati e aveva trovato l'accordo per l'ingresso, poi impedito, però, dall'esito negativo del referendum popolare sull'adesione alle Comunità.

I successivi ingressi, della Grecia (nel 1979) e, poi, della Spagna e del Portogallo (nel 1985), testimoniavano il crescente appeal esercitato dall'integrazione europea nei confronti di paesi reduci da esperienze dittatoriali: alla luce di ciò può sostenersi che l'adesione alle Comunità europee rappresentasse - allora come adesso - la consacrazione del ritorno alla democrazia (ovviamente, di stampo occidentale).

Dieci anni dopo gli ultimi ingressi, nel 1995 altri tre paesi aderirono a quella che, intanto, era divenuta l'Unione europea: l'Austria, la Finlandia e la Svezia. Ma il crollo dei regimi di socialismo reale nell'Europa orientale faceva prefigurare una ulteriore estensione, che si è effettivamente concretizzata il 1º maggio 2004, quando l'"Europa dei quindici" è divenuta l'"Europa dei venticinque", per le adesioni di buona parte dei paesi ex-satelliti dell'Unione sovietica (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria), di alcuni paesi resisi indipendenti a seguito dell'implosione dell'URSS (Estonia, Lettonia e Lituania) e della Jugoslavia (Slovenia), nonché di Malta e di Cipro. Il processo di allargamento è peraltro destinato a proseguire, se è vero che è imminente l'ingresso della Romania e della Bulgaria (1º gennaio 2007), mentre la Croazia e la Turchia sono, ad oggi, "paesi candidati".

Per quanto attiene all'ampliamento delle funzioni delle Comunità, è da rilevare come le forti resistenze a ogni accelerazione del processo di integrazione che caratterizzarono gli anni sessanta vennero superate - per una serie di fattori che non è qui il caso di...

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