Le pari opportunità tra donne e uomini

AutoreAlessia Di Capua/Saulle Panizza
Pagine57-69

Page 57

    I paragrafi 1, 2, 6 e 9 sono stati curati da Saulle Panizza; i paragrafi 3, 4, 5, 7 e 8 da Alessia Di Capua.

@1. La comparsa del tema nel nostro ordinamento e la sent. n. 422/1995 della Corte costituzionale

Nel 2003 è stata approvata, nel nostro ordinamento, una legge costituzionale che ha inciso sulla lettera dell'art. 51, c. 1, Cost., aggiungendo il periodo secondo cui "A tale fine (per consentire, cioè, che tutti i cittadini possano accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza) la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini". Tale modifica può essere colta nel suo pieno significato soltanto considerandola come una tappa del cammino riguardante quelle che sono state definite, con termini differenti, azioni positive in materia elettorale, "quote rosa" (in quanto riservate alle donne), particolari applicazioni dell'eguaglianza (sostanziale) ai diritti politici, meccanismi per la parità tra i sessi nella legislazione elettorale, forme di rappresentanza preferenziale nelle istituzioni elettive ecc.

Nate, storicamente, nell'esperienza nordamericana, comparse nel nostro ordinamento nei primi anni novanta del XX secolo nell'ambito economico-sociale e in particolare del lavoro, le azioni positive in materia elettorale sono state per la prima volta previste all'interno delle modifiche intervenute tra il 1993 e il 1995 nella legislazione riguardante i consigli comunali, provinciali, regionali e le elezioni per la Camera dei deputati. Sia pure ispirate a tecniche alquanto differenti tra loro - nessun sesso rappresentato nelle liste di candidati in misura superiore a una certa frazione ovvero candidature maschili e femminili in ordine alternato, con incidenza solo sulla formazione delle liste elettorali o tale da imporre, di fatto, l'elezione di un certo numero di rappresentanti sulla base dell'appartenenza sessuale - tutte queste previsioni sono state ritenute costituzionalmente illegittime dalla Corte costituzionale (sent. n. 422/1995), per violazione degli artt. 3 e 51, Cost.

In quell'occasione, infatti, pur formalmente investita della sola questione relativa all'art. 5, c. 2, ultimo periodo, l. 81/1993 (riferita all'elezione dei consiglieri comunali nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, e tale per cui nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi poteva essere di norma rappresentato in misura superiore a due Page 58 terzi), la Corte ha fatto ricorso alla dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale nei confronti di ogni altra misura che prevedesse, nelle leggi elettorali, limiti, vincoli o riserve nelle liste dei candidati in ragione del loro sesso. Quanto alla motivazione, la Corte osservava che gli artt. 3, c. 1, e 51, c. 1, Cost. (quest'ultimo, naturalmente, nel testo allora vigente) garantiscono l'assoluta eguaglianza fra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l'appartenenza all'uno o all'altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità, e altrettanto, conseguentemente, per la candidabilità. Aggiungeva, poi, che le c.d. azioni positive, se possono certamente essere adottate per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica o per compensare e rimuovere le diseguaglianze materiali tra gli individui, quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali, non possono invece incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in eguale misura a tutti i cittadini in quanto tali. Oltretutto, proseguiva la sentenza, misure quali quelle in esame non appaiono coerenti con le finalità dell'art. 3, c. 2, Cost. perché non si propongono di "rimuovere" gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati, attraverso una tutela preferenziale che finisce per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate; concludendo nel senso che esse si pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio supremo della nostra Repubblica, mentre ben diversa sarebbe la valutazione ove esse fossero liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni.

La pronuncia è stata in vario modo commentata e anche aspramente criticata, ma ha innegabilmente rivestito un ruolo centrale nella discussione sorta intorno alla possibilità di adottare misure volte a favorire un riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive.

Nonostante gli spiragli presenti - riconducibili, da un lato, all'adozione spontanea, addirittura auspicata, delle misure censurate (qualora, però, ciò avvenga) da parte delle forze politiche, e, dall'altro, alla possibilità per il legislatore di individuare interventi di altro tipo, in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali, economiche e sociali - la pronuncia è parsa rappresentare, ai più, una barriera nei confronti di iniziative legislative volte a perseguire l'equilibrio della rappresentanza attraverso lo strumento formale della legge ordinaria, avvertendosi, di conseguenza, la necessità di percorrere una diversa strada, consistente nell'inserimento nella carta fondamentale di apposite disposizioni, idonee, in forza del rango ricoperto, ad attribuire un fondamento e una copertura costituzionale agli interventi legislativi in favore della partecipazione politica femminile. È quanto, del resto, registratosi anche in altri ordinamenti europei, alle prese con problemi spesso del tutto analoghi, i quali pure hanno a un certo punto percorso la strada della modifica costituzionale (emblematica, in tal senso, la vicenda francese).

@2. Le leggi costituzionali n. 2 e n. 3 del 2001

Nel nostro ordinamento, una volta fallita l'esperienza della Commissione bicamerale del 1997 (che conteneva apposite previsioni al riguardo), l'idea di addivenire a una modifica costituzionale che consentisse l'adozione di azioni positive in materia elettorale si è incanalata principalmente secondo due binari: il primo costituito da un apposito disegno di legge costituzionale di modifica dell'art. 51, Cost., non giunto peraltro a Page 59 compimento nella XIII legislatura, e poi ripresentato nella successiva, e un secondo rappresentato dall'inserimento di puntuali previsioni all'interno del più vasto processo riformatore delle autonomie territoriali, con riferimento sia alle disposizioni adottate per la riforma degli statuti speciali (l. cost. 2/2001), sia a quelle di complessiva modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione (l. cost. 3/2001).

In realtà, queste ultime presentano alcune significative differenze tra loro, riguardanti, tra l'altro, la fonte normativa mediante la quale intervenire (legge elettorale delle assemblee rappresentative delle regioni speciali; leggi regionali nell'altro caso), la formulazione lessicale (promuovere "condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali", al fine del conseguimento dell'"equilibrio della rappresentanza dei sessi"; promuovere, dopo aver ribadito il principio di uguaglianza sostanziale, "la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive"), il differente grado di doverosità dell'adozione di tali discipline per le regioni speciali, da un lato, e per quelle ordinarie, dal l'altro. Anche per questo, esse hanno posto agli interpreti problemi specifici di inquadramento, sia nell'ambito del rispettivo disegno riformatore sia in rapporto alla complessiva opera di modifica.

Al di là, però, delle differenze tra formulazioni, il punto di maggior interesse era senza dubbio rappresentato dal significato assunto in relazione all'ordinamento complessivamente inteso, e dunque il tipo di possibile incidenza sui principi posti dagli artt. 3 e 51, Cost., così come interpretati dalla Corte costituzionale in occasione della ricordata sent. n. 422/95. La dottrina non ha mancato, infatti, di evidenziare la circostanza che i due interventi del 2001 si sono posti come chiaro indizio di un tentativo di superamento dell'ostacolo frapposto dalla giurisprudenza costituzionale, dividendosi, peraltro, sull'interpretazione del risultato, vale a dire sul riconoscimento, o meno, dell'effettiva capacità delle nuove previsioni di contrapporsi al divieto a suo tempo sancito. Vi è chi si è espresso al riguardo in termini affermativi, attribuendo alle nuove disposizioni una funzione di indirizzo, non solo nei confronti della legge regionale, e finendo per rinvenire in esse un riconoscimento implicito della legittimità costituzionale delle azioni positive in materia elettorale, anche per le leggi statali. Gran parte della dottrina si è però schierata nel senso della soluzione opposta, ritenendo che le nuove disposizioni non comportassero un mutamento sostanziale del quadro di riferimento costituzionale, fondato sui rapporti tra gli artt. 3, c. 1, e 51, c. 1, da un lato, e l'art. 3, c. 2, dall'altro, come interpretati dalla Corte costituzionale.

Nel contesto così determinatosi, ha finito per inserirsi un ulteriore fattore, rappresentato dal disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa (estate 2001), che prevedeva l'inserimento nel comma 1 dell'art. 51, Cost., in fine, del periodo "A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini". Esso ereditava, per così dire, il lavoro svolto nel corso della precedente legislatura, allorché, come ricordato, analogo progetto non arrivò in porto, e mirava a porsi - facendo seguito all'approvazione della l. cost. 2/2001 e all'avvenuta modifica dell'art. 117, Cost. ad opera della l. cost. 3/2001 - quale compimento di un processo politico, culturale e legislativo avviatosi ormai da alcuni anni. Come emerso nel corso dell'iter...

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