Le riforme del titolo v e gli incerti percorsi dell'attuazione

AutoreElena Malfatti
Pagine71-119

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@1. Premessa

In queste pagine verrà affrontato nelle sue linee generali un tema ampio quale quello delle autonomie territoriali, a seguito del processo di revisione costituzionale, che negli anni recenti ha investito l'ordinamento regionale e degli enti locali, potenziandolo in modo significativo, sì da far alludere comunemente a una progressiva evoluzione della Repubblica italiana in senso federalista.

È necessario precisare immediatamente che la locuzione "riforme del Titolo V" (della Parte II della Costituzione), spesso utilizzata e senz'altro efficace per alludere al fenomeno nella sua complessità, viene qui ripresa e adoperata senza che la si intenda in un senso strettamente ricognitivo degli interventi operati dal legislatore di revisione costituzionale (rispettivamente, nel 1999 e nel 2001): infatti alcuni aspetti di quelle riforme, sulle quali indubbiamente ci si deve diffondere, sono stati in realtà preceduti in modo importante (si potrebbe dire "preparati") da interventi del legislatore ordinario, mentre altri aspetti hanno creato notevoli difficoltà interpretative, alle quali ha successivamente reso un decisivo apporto chiarificatore la Corte costituzionale, attraverso massicci interventi nella sede (soprattutto) del giudizio in via principale. È allora al complesso delle trasformazioni delle autonomie territoriali che pare opportuno guardare, a partire da una rapida disamina dei problemi che aveva posto la stessa attuazione del precedente testo costituzionale (e che hanno innescato "da lontano" il processo riformatore), per passare all'esame delle riforme ordinarie e costituzionali, e giungere infine all'enunciazione di quei nodi che ancora oggi (e nonostante il suddetto contributo giurisprudenziale) risultano critici.

Si ricorderà come diverse delle previsioni inserite dal Costituente nella Carta del 1947, tra le quali proprio quelle relative alle autonomie territoriali, siano state tradotte e Page 72 portate alla propria effettività in ritardo, nell'ordinamento italiano; inoltre, più nello specifico, alcune scelte di fondo del legislatore statale (per tutte, la stentata redazione delle leggi c.d. cornice e il "ritaglio", nel senso di una deminutio, delle materie già attribuite dalla Costituzione alla potestà legislativa regionale) e le successive determinazioni dei Consigli regionali (poco originali sul versante legislativo, e poco inclini a valorizzare come avrebbero potuto l'amministrazione a livello locale) hanno altresì, a lungo, svilito le potenzialità e ridotto il significato innovatore che le autonomie territoriali avrebbero potuto assumere rispetto all'ordinamento precedente; così, a una stagione di dibattiti in cui si era sottolineata l'opportunità di portare a compimento l'idea dello "Stato regionale maturo", e che ha dato luogo a importanti innovazioni legislative delle quali non si può tuttora tacere (fra tutte, quelle contenute nelle leggi 142/1990 e 59/1997), è seguita una più recente fase culminata in autentiche riforme costituzionali, delle quali una prima ormai consolidata (ci si riferisce alla l. cost. 1/1999, alla quale deve essere correlato, come si vedrà, l'intervento di modifica degli statuti speciali, ad opera della l. cost. 2/2001); e una seconda, tra l'altro confermata dal corpo elettorale col referendum dell'ottobre 2001 (la l. cost. 3/2001, che è poi entrata in vigore nel novembre dello stesso anno), della quale ancora si discute e sulla quale ancora ci si divide (mentre entrambe le riforme del Titolo V non sono state ad oggi completamente attuate).

Mentre le innovazioni operate per la via della legislazione ordinaria avevano già tracciato un quadro avanzato delle autonomie locali, che per larghi tratti è stato poi "confermato" dalla revisione costituzionale del 2001 - tanto che un punto di riferimento fondamentale per l'operatore giuridico è tutt'oggi rappresentato dal testo unico delle autonomie locali (d.lgs. 267/2000, c.d. TUEL), licenziato dal Governo prima della seconda riforma del Titolo V (pur prospettandosi da più parti l'opportunità di apportarvi alcune modifiche che lo raccordino col complesso degli interventi del 2001: v. infra, § 2.1) - le revisioni costituzionali, auspicate fin dagli anni ottanta e soprattutto negli anni novanta, attraverso i lavori delle commissioni bicamerali all'uopo istituite (anche su questo punto, infra, § 3.1), una volta operate da un lato hanno caricato i legislatori statale e regionali dell'onere di un seguito coerente ai principi riformatori, dall'altro lato hanno prodotto immediati propositi di "riforma della riforma" che sono rifluiti nella legge di revisione dell'intera seconda parte della Costituzione, approvata definitivamente dalle Camere nel 2005, ma poi come noto bocciata dal corpo elettorale, col referendum del giugno 2006. Questa spirale che ha avvolto i temi del regionalismo, e che nel linguaggio dei mass-media si è tradotta nell'idea di "devolution", può in qualche modo comprendersi tenendo conto dell'avvicendamento delle forze politiche al governo del Paese, che si è avuto nello stesso anno 2001, e che ha fatto sì che la riforma voluta dalla maggioranza di centro-sinistra, al volgere della XIII legislatura, sia stata poi disconosciuta dal secondo Governo Berlusconi, e in particolare da uno dei partiti della coalizione che lo sosteneva (la Lega Nord); così l'esecutivo si è reso artefice (come si è spiegato in altra parte di questo volume) di un progetto amplissimo, che se fosse stato approvato col referendum costituzionale avrebbe portato a ulteriori novità (sia pure meno incisive nel campo delle autonomie, che non in altri settori dell'ordinamento) ben prima che la riforma del 2001 potesse essere compiutamente testata.

Si può comprendere pure come la legge testualmente volta all'attuazione del nuovo Titolo V (l. 131/2003, c.d. legge "La Loggia") nei suoi contenuti si sia rivelata assai deludente, e come alcune delle deleghe legislative in essa contenute siano state lasciate Page 73 cadere (infra, § 2.2), posto l'orientamento avverso (e peraltro variegato al suo interno) della maggioranza di centro-destra e l'ostentazione (forse più che la convinzione) di un progetto più spiccatamente federalista. Ad oggi si registrano quindi pochi interventi del Parlamento che abbiano tenuto conto degli sviluppi (e delle nuove esigenze) delle autonomie (vedremo, oltre ad alcune disposizioni contenute nella stessa legge "La Loggia", essenzialmente la l. 165/2004 e la l. 11/2005), come pure, su altro versante, l'elaborazione di alcuni, ma non di tutti, nuovi statuti regionali, e infine diverse scelte legislative che sono sembrate viceversa esprimere un'avversione alle accresciute competenze regionali e locali (e che hanno perciò alimentato un notevolissimo contenzioso di fronte ai Giudici della Consulta). Sarà interessante verificare, nel prossimo futuro, ormai a seguito, oltre che del referendum, delle elezioni politiche del 2006, al cospetto quindi di un nuovo cambio di maggioranza politica (singolare anche che le uniche due consultazioni referendarie, ex art. 138, Cost., della nostra storia repubblicana si siano svolte all'inizio della XIV e della XV legislatura, apertesi entrambe nel segno della discontinuità e dell'alternanza), se la riforma del Titolo V potrà trovare finalmente seria e integrale attuazione, oppure se il nuovo regionalismo dovrà continuare a sorreggersi sulle "stampelle" fornite dalla giurisprudenza costituzionale.

L'esposizione che segue sarà articolata dal punto di vista dei destinatari delle riforme complessivamente intese, prima gli enti locali, poi le Regioni (con cenni anche alle peculiarità delle autonomie speciali), valorizzando per gli uni e per gli altri la dimensione diacronica delle riforme. Gli sviluppi temporali della questione regionale consentono infatti, a parere di chi scrive, di focalizzare e descrivere meglio i vari aspetti dell'autonomia (amministrativa, normativa, finanziaria) sui quali via via si è puntato da parte del legislatore ordinario e costituzionale per arricchire il ventaglio delle competenze dei soggetti interessati; a tal fine si cercherà di sottolineare le norme essenziali che si sono succedute, in special modo negli ultimi quindi anni, estrapolandole da un complesso di disposizioni delle quali non si potranno che evidenziare i tratti qualificanti, e valutandole alla luce dell'interpretazione che ne ha reso la Corte. E se il quadro è quello sommariamente delineato, è intuibile come conclusioni certe su ogni profilo non sembrino possibili, e men che meno precise indicazioni di sistema.

@@2.1. Il quadro delle autonomie, prima delle riforme del Titolo V (e con particolare riferimento alle autonomie locali)

Il complesso delle norme di cui andiamo discutendo rappresenta l'approdo di un percorso ormai quasi trentennale di riflessioni e di iniziative legislative avviato dai sostenitori di un autentico pluralismo istituzionale allorché, negli anni ottanta, si erano potuti iniziare a cogliere i deludenti esiti dell'attuazione delle Regioni, così come impostata nel decennio precedente; è infatti praticamente a ridosso della seconda fase dell'operazione di trasferimento di funzioni, normative e amministrative, alle regioni e agli enti locali, culminata con il d.lgs. 616/1977, che si inizia a percepire la difficoltà di dar vita a un autentico Stato delle autonomie, in cui ciascuna eserciti nel modo più proficuo i propri poteri. In modo assolutamente sintetico ricordiamo a tal proposito che per un verso le Regioni hanno preferito amministrare le relative comunità, piuttosto che non valorizzare la propria potestà legislativa, e lo hanno fatto senza utilizzare al meglio le strutture degli enti locali, come suggeriva invece il previgente art. 118, Cost., prevedendo l'avvalimento degli uffici di questi ultimi; per altro verso le stesse Regioni non hanno colto l'opportunità, parimenti offerta dall'art. 118, di delegare l'esercizio delle proprie funzioni amministrative...

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