n. 48 SENTENZA 25 febbraio - 26 marzo 2015 -

ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce nel procedimento penale a carico di M.F. con ordinanza del 23 dicembre 2013, iscritta al n. 78 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2014. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 25 febbraio 2015 il Giudice relatore Giuseppe Frigo. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 23 dicembre 2013, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis del codice penale (associazioni di tipo mafioso anche straniere) e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure: e cio' «in particolar modo in relazione alla figura del concorso esterno in associazione di tipo mafioso». Il giudice a quo premette di essere investito dell'istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, proposta dal difensore di una persona sottoposta ad indagini per il delitto continuato di associazione di tipo mafioso, quale "concorrente esterno" ad essa. Secondo l'ipotesi accusatoria, l'indagato avrebbe messo, in piu' occasioni, a disposizione del sodalizio criminoso le proprie cognizioni tecniche e le proprie apparecchiature, idonee all'individuazione di microspie, apparati di localizzazione satellitare e telecamere, collocati dalla polizia giudiziaria nei luoghi in cui i membri dell'organizzazione erano soliti incontrarsi al fine di captarne le comunicazioni. Ad avviso del rimettente, le esigenze cautelari non sarebbero venute meno, tenuto conto della perdurante operativita' dell'associazione e dei legami che l'indagato avrebbe dimostrato di avere con i suoi membri. Dette esigenze potrebbero essere, tuttavia, adeguatamente soddisfatte con la misura meno gravosa degli arresti domiciliari, in considerazione del ruolo di semplice concorrente esterno dell'interessato, che non implicherebbe l'appartenenza al gruppo malavitoso. La misura degli arresti domiciliari risulterebbe, in particolare, idonea a fronteggiare il pericolo di reiterazione di fatti del genere di quelli per i quali si procede, dovendosi escludere che l'indagato - una volta ristretto nella propria abitazione - possa mettere nuovamente a disposizione dell'associazione criminosa le proprie capacita' tecniche. All'accoglimento dell'istanza osterebbe, tuttavia, la norma censurata, che impone di applicare la custodia cautelare in carcere nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per il delitto previsto dall'art. 416-bis cod. pen., salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Di qui, dunque, la rilevanza della questione. Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ricorda che la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 450 del 1995, ha affermato che la scelta del tipo di misura cautelare da applicare non deve essere necessariamente rimessa all'apprezzamento in concreto del giudice, potendo formare oggetto anche di predeterminazione legislativa, nei limiti della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti. Su tale premessa, la Corte ha ritenuto non irragionevole la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, stabilita dalla norma censurata - nel testo allora vigente - nei confronti dei soggetti gravemente indiziati di delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso, stante il coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva proprio di detti illeciti. Secondo il rimettente, tale conclusione dovrebbe essere, tuttavia, necessariamente rivista alla luce delle successive e recenti dichiarazioni di illegittimita' costituzionale parziale che hanno colpito la presunzione sancita dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., il cui ambito applicativo e' stato esteso ben oltre il settore della criminalita' mafiosa dal decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38. Al riguardo, verrebbe in rilievo, in modo particolare, la sentenza n. 57 del 2013, con la quale la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma censurata, nella parte in cui stabilisce una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine a delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo. Nell'occasione, la Corte ha rilevato che le ipotesi criminose ora indicate, anche se collocate «in un contesto mafioso», non postulano indefettibilmente che il loro autore faccia parte dell'associazione mafiosa: circostanza a fronte della quale la presunzione censurata rimane priva di una «congrua "base statistica"» e, con essa, di «un fondamento giustificativo costituzionalmente valido». Non si e', infatti, al cospetto di un «reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosita' - per radicamento nel territorio, intensita' dei collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo che solo la misura piu' severa risulterebbe, nella generalita' dei casi, in grado di interrompere». Ad avviso del giudice a quo, le stesse considerazioni varrebbero anche in rapporto all'ipotesi del concorso esterno nell'associazione mafiosa. Alla luce della complessa elaborazione giurisprudenziale in materia, deve essere, infatti, qualificato come concorrente esterno il soggetto che, senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisce un contributo concreto, specifico e volontario alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione criminale. La posizione del concorrente esterno risulterebbe, quindi, pienamente sovrapponibile a quella dell'autore di un reato aggravato ai sensi dall'art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in quanto finalizzato...

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