La coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti ad “uso domestico” alla luce del principio di offensività

AutoreDomenico Giannelli
Pagine125-132

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1. Premessa

Un’interessante fattispecie che è stata vagliata dalla Corte costituzionale in relazione al principio di offensività - la cui interpretazione è stata oggetto di una vexata quaestio - consiste nella coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti. Il principio di offensività, che può essere compendiato nel brocardo “nullum crimen sine iniuria”, si configura come un principio cardine del nostro ordinamento penalistico e preclude l’incriminazione e la conseguente punibilità di fatti che non comportino la lesione o la messa in pericolo di beni giuridicamente tutelati. Il principio di offensività presuppone ed integra il principio di materialità. Lo presuppone in quanto richiede che a fondamento dell’incriminazione vi sia un fatto nella sua materialità (e non meri atteggiamenti interiori) e lo integra in quanto esige che il fatto sia offensivo di un bene giuridico tutelato, rifiutando nettamente l’incriminazione della mera disobbedienza alle norme statuali.

Dottrina e giurisprudenza maggioritaria ritengono che il principio di offensività abbia fondamento costituzionale [cfr., ex pluribus, sul punto F. Mantovani, F. Angioni e C. Fiore 1]. Esso viene desunto dall’art. 13 Cost. che, nel definire “inviolabile” la libertà personale, implicitamente richiede che non si pongano limitazioni alla stessa, se non per la tutela di interessi concreti, dall’art. 26 - comma primo e terzo - che, codificando il principio di personalità della responsabilità penale e la funzione rieducativa e retributiva della pena, sembra presupporre l’incriminazione di un fatto concretamente offensivo, nonché dal combinato disposto degli artt. 25 e 27 Cost. Questo, distinguendo le pene dalle misure di sicurezza, impedisce di incriminare fatti di mera disobbedienza, a meno di una utilizzazione della sanzione con finalità preventive, con una inaccettabile usurpazione delle funzioni proprie della misura di sicurezza, che sola è preposta a colpire la pericolosità. La norma che meglio riassume il principio di offensività è, tuttavia, a livello di normazione ordinaria per ampia dottrina e giurisprudenza, l’art. 49, secondo comma, che esclude la punibilità del reato impossibile che si configura quanto “per l’inidoneità dell’azione o l’inesistenza dell’oggetto è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”. Particolari problemi di compatibilità col principio dell’offesa si sono posti per i cosiddetti reati di pericolo astratto-presunto fra cui rientrerebbero quelli in materia di stupefacenti ivi compresa la coltivazione dei medesimi. La dottrina e la giurisprudenza maggioritaria anche costituzionale (ex pluribus Corte cost. 24 luglio 1995, n. 360, in Riv. pen. 1995, 1302) salvano, tuttavia, la legittimità costituzionale dei reati de quibus in base ad un duplice percorso argomentativo. Da una parte si richiede al legislatore di ricorrere ad una forma così incisiva di anticipazione della tutela non a fronte di una irrazionale ed arbitraria valutazione di pericolosità del fatto, ma a fronte di condotte pericolose secondo l’id quod plerumque accidit ed a salvaguardia di beni primari, non suscettibili di essere efficacemente protetti con tecniche di tutela differenti; dall’altra si impone al giudice di ricondurre alla fattispecie astratta, nel rispetto del principio di offensività in concreto, solo quelle condotte che siano effettivamente idonee a porre in pericolo l’interesse tutelato.

È importante stabilire il discrimen esistente tra coltivazione di sostanze psicotrope per uso specificatamente domestico e detenzione delle medesime ad uso personale stante la punibilità di quest’ultima condotta con una mera sanzione amministrativa come si desume dall’art. 3 D.P.R. n. 703/90 sugli stupefacenti e successive modifiche sin alla legge n. 49/2006. Va precisato che il legislatore dopo il D.P.R. del 1993 n. 171, seguito al referendum abrogativo, non ha fatto menzione della coltivazione domestica ai fini dell’applicabilità delle sanzioni amministrative previste all’uopo per la detenzione ad uso personale di sostanza stupefacente. Prima di esaminare i più recenti riferimenti normativi appare tuttavia opportuno, ai fini di una migliore comprensione della nozione penalmente rilevante di coltivazione, nonché al fine della valutazione della sua autonomia rispetto alla condotta di detenzione di sostanze

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stupefacenti, soffermarsi brevemente sulla progressione normativa in materia.

Sin dalla legge n. 1041 del 22 ottobre 1954 il legislatore (agli artt. 4, 10 e 40) ritenne di incriminare la condotta di chiunque, senza la prescritta autorizzazione, coltivasse piante dalle quali si potessero ricavare sostanze comprese nell’elenco degli stupefacenti. La medesima legge (art. 6, comma 4) considerava penalmente rilevante la condotta di detenzione indipendentemente dallo scopo dell’acquisto e dal quantitativo ricevuto.

La legge n. 685 del 22 dicembre 1975 se da un lato continuava a punire la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti (art. 28, comma 1), escludeva tuttavia la punibilità quando le sostanze stupefacenti fossero detenute in modica quantità per uso personale.

Occorre sottolineare che, già nel rigore della legge n. 685 del 1975, la giurisprudenza riteneva non operante, per la coltivazione di modifiche quantità di stupefacenti, il regime della detenzione per uso personale, in tal modo tracciando limiti rilevanti tra il trattamento penale della detenzione ed il trattamento penale della coltivazione (così Cass. pen., sez. VI, 23 ottobre 1987, Mariotti; Cass. pen., sez. I, 7 aprile 1987, Gallo) ciò nonostante la prima fosse considerata come specie di un unico genus. La preclusione alla rilevanza penale della coltivazione sarebbe discesa dal dato testuale di cui all’art. 80 che prevedeva, appunto, la non punibilità soltanto per chi acquistasse modiche quantità di sostanze stupefacenti o psicotrope “per farne uso personale non terapeutico”, anche se la migliore dottrina già allora riteneva che l’intento del legislatore non fosse la discriminazione dei tipi di condotta ma delle quantità implicate.

Con la legge 26 giugno 1990, n. 162, pressoché immediatamente trasfusa nel testo unico tuttora in vigore, seppure rimaneggiato (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) i requisiti di rilevanza penale della condotta di detenzione di sostanze stupefacenti sono stati modificati. In particolare l’art. 75 ha escluso l’illiceità penale delle condotte di acquisto, importazione e detenzione per uso personale solo se aventi ad oggetto un quantitativo non superiore alla dose media giornaliera determinata ai sensi del comma 1 dell’art. 78. La normativa de qua escludeva, invece, dal regime dell’uso personale tutte le condotte illecite previste dall’art. 73, tra le quali si annoverava la coltivazione. Tale esclusione si giustificava per il fatto che quella normativa ricollegava la destinazione all’uso personale al non superamento della dose media giornaliera, dato quantitativo ontologicamente incompatibile con la nozione di coltivazione, condotta questa che, di per se stessa, richiede un sia pur lieve accumulo, oggetto di esplicito divieto alla stregua del testo originario del D.P.R. n. 309/1990.

Il D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 ha nuovamente modificato la condotta di detenzione di sostanze stupefacenti, all’esito di una procedura referendaria, sopprimendo la nozione di dose media giornaliera e così estrapolando una normativa di risulta in grado di evidenziare un regime sanzionatorio perfettamente compatibile con la coltivazione per il solo consumo personale. Tale normativa, infatti, distingue la detenzione finalizzata all’uso personale dalla detenzione finalizzata alla cessione a terzi e la quantità della sostanza, lungi dall’essere criterio discretivo tra le due condotte, viene ad assumere una pura valenza sintomatica dell’uso personale.

Oggi le norme di riferimento in materia, che non hanno sostanzialmente modificato i termini della questione successivi alla consultazione referendaria, sono contenute agli artt. 73 e 75 della legge n. 49 del 21 febbraio 2006. L’art. 73 comma 1 punisce con la reclusione da 6 a 20 anni e con la multa da € 26.000 a € 260.000 “chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, coltiva, produce, fabbrica, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, invia, spedisce in transito, consegna sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella 1 dell’art. 14”; alle stesse pene è assoggettato (al comma 1 bis) “chiunque importa, esporta, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene” sostanze stupefacenti che per quantità, modalità di presentazione o confezionamento o altre circostanze appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale. L’art. 75 qualifica invece alla stregua di illecito amministrativo la condotta di “chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope” fuori dalle ipotesi di cui all’art. 73 bis.

2. I contrasti giurisprudenziali

Immediatamente dopo la consultazione referendaria e l’emanazione del D.P.R. n. 171/1993 che ne recepì gli esiti, la Corte costituzionale venne investita della questione di legittimità costituzionale degli artt. 28, 72, 73 e 75 del T.U. n. 309/1990 in relazione all’art. 3 Cost. nella parte in cui le suddette disposizioni non escludevano l’illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale proprio. Con la decisione n. 443/1994 la Corte dichiarò inammissibile la questione di costituzionalità prospettando la possibilità di un’interpretazione adeguatrice delle norme impugnate, che estendesse la disciplina della detenzione ad uso personale alla condotta di coltivazione delle sostanze in oggetto per il fine indicato.

Chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla medesima questione, a meno di un anno dal precedente intervento, la Corte costituzionale con la storica sentenza n...

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