Sentenza nº 236 da Constitutional Court (Italy), 19 Novembre 2015

RelatoreDaria de Pretis
Data di Resoluzione19 Novembre 2015
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 236

ANNO 2015

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Alessandro CRISCUOLO Presidente

- Giuseppe FRIGO Giudice

- Paolo GROSSI ”

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Nicol򠠠 ZANON ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in relazione all’art. 10, comma 1, lettera c), del medesimo decreto legislativo, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione prima, nel procedimento vertente tra D.M.L. e altro e il Ministero dell’interno – UTG Prefettura di Napoli e altro, con ordinanza del 30 ottobre 2014, iscritta al n. 29 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti gli atti di costituzione di D.M.L. e del Comune di Napoli, nonché gli atti di intervento di Capasso Elpidio, di Minozzi Maria Modesta, di Caputo Salvatore e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 20 ottobre 2015 il Giudice relatore Daria de Pretis;

uditi gli avvocati Mario Montefusco per Minozzi Maria Modesta, Lorenzo Lentini per Capasso Elpidio, Gaetano Armao per Caputo Salvatore, Giuseppe Russo per D.M.L., Fabio Maria Ferrari per il Comune di Napoli e gli avvocati dello Stato Agnese Soldani e Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 30 ottobre 2014, il Tribunale amministrativo per la Campania – sezione prima – ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in relazione all’art. 10, comma 1, lettera c), del medesimo decreto legislativo, «perché la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma e 97, secondo comma della Costituzione».

    La disposizione sottoposta all’esame di questa Corte (intitolata «Sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali in condizione di incandidabilità») statuisce che «Sono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10: a) coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)».

    L’art. 10 (intitolato «Incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali»), al comma 1, lettera c), dispone che «Non possono essere candidati alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e non possono comunque ricoprire le cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale […] coloro che hanno riportato condanna definitiva per i delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 323, 325, 326, 331, secondo comma, 334, 346-bis del codice penale».

    La questione è sorta nel corso di un giudizio promosso dal Sindaco del Comune di Napoli, D.M.L., contro il Ministero dell’interno – UTG Prefettura di Napoli, per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, del decreto del Prefetto di Napoli del 1° ottobre 2014, n. 87831, con il quale è stata accertata la sospensione di D.M.L. dalla carica di sindaco, per effetto della condanna – pronunciata in primo grado dal Tribunale di Roma all’udienza del 24 settembre 2014 – per il reato di abuso d’ufficio alla pena di un anno e tre mesi di reclusione e, in base all’art. 31 cod. pen., all’interdizione dai pubblici uffici per un anno (pene sospese).

    Nel giudizio a quo, sino alla pronuncia dell’ordinanza di rimessione, sono intervenuti ad adiuvandum il Comune di Napoli e ad opponendum Manfredi Nappi, in qualità di cittadino elettore e di legale rappresentante della Associazione Lotta Piccole Illegalità – ALPI.

    Con la stessa ordinanza, il TAR ha sospeso provvisoriamente gli effetti del provvedimento prefettizio impugnato fino alla «ripresa» del giudizio cautelare successiva alla definizione della questione di legittimità costituzionale e ha disposto altresì la sospensione del giudizio.

    1.1.– Il rimettente si sofferma, in primo luogo, sull’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa erariale, respingendola sulla base della considerazione che il decreto prefettizio avrebbe natura costitutiva, derivando solo da esso l’effetto sospensivo, con la conseguenza che la posizione soggettiva fatta valere sarebbe di interesse legittimo e la giurisdizione, quindi, del giudice amministrativo.

    Quanto al merito, dichiara manifestamente infondate le questioni sollevate con i motivi quinto, sesto e settimo e considera invece non manifestamente infondata la questione di costituzionalità sollevata con il quarto motivo di ricorso, mediante il quale D.M.L. ha contestato l’applicazione retroattiva (alla candidatura avvenuta nel 2011, e dunque al mandato già in corso) di una nuova «causa ostativa» alla permanenza in carica, introdotta il 5 gennaio 2013 con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 235 del 2012.

    Nell’argomentazione successiva, il giudice a quo introduce elementi ulteriori, a suo avviso essenziali ai fini della decisione sulla questione di costituzionalità. Dopo aver riferito di alcune pronunce emesse in materia di cause ostative all’assunzione e alla conservazione di cariche elettive dal giudice amministrativo e dalla Corte costituzionale, sottolinea che la vicenda de qua «riguarda un provvedimento di sospensione adottato a seguito e per effetto di una condanna penale non definitiva», e non di una condanna irrevocabile come nei casi giurisprudenziali ricordati, e che «una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo non autorizza l’interprete a presumere la sussistenza di una situazione di indegnità morale che legittimi l’inibizione dell’accesso ad una carica pubblica o la sua perdita, e ciò superando il divieto di retroattività, anche nel diverso caso in cui si sia in presenza di una sentenza non definitiva».

    Il rimettente afferma pertanto che i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 11 per violazione del divieto di retroattività, «ove sia una sentenza non passata in cosa giudicata a determinare la sospensione dalla carica, si fondano su due presupposti»: il primo è la «natura sanzionatoria dell’istituto della sospensione», il secondo l’«efficacia retroattiva dell’istituto della sospensione dalla carica, applicato in presenza di una condanna penale non definitiva».

    Pur dando atto della finalità cautelare attribuita dalla Corte costituzionale a norme previgenti del tipo di quella in esame, il TAR osserva che «riconoscere natura sanzionatoria, e comunque afflittiva, agli istituti dell’incandidabilità, sospensione e decadenza non significa affatto negare l’esistenza di ulteriori finalità, anche principali, che la disciplina legislativa in esame pone a fondamento della propria giuridica esistenza», e che la discrezionalità del legislatore «non può spingersi […] fino al punto di negare natura di vera e propria sanzione ad istituti tanto incisivi sull’esercizio di un diritto costituzionale, quale quello di accesso alle cariche pubbliche di cui all’art. 51 della Carta».

    A sostegno di tale assunto, invoca la disciplina (contenuta nell’art. 15 del d.lgs. n. 235 del 2012) del rapporto tra incandidabilità e interdizione temporanea dai pubblici uffici e la previsione dell’estinzione dell’incandidabilità in caso di riabilitazione.

    Quanto al secondo presupposto, il TAR afferma che «la sospensione di un amministratore da una carica per un fatto storicamente anteriore rispetto alla sua elezione, così come anteriore ne è il provvedimento giudiziario che a questo dà a tal fine rilevanza, costituisce, oggettivamente, applicazione retroattiva della norma», che viola l’art. 51 Cost.

    A quest’ultimo proposito, il rimettente rileva che, «ove vi sia riserva di legge per la disciplina di diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono rango costituzionale anche i principi generali che disciplinano la fonte di produzione normativa primaria», fra i quali quello di irretroattività di cui all’art. 11 delle preleggi, e che «l’art. 51 della Costituzione nell’affidare alla legge […] la disciplina positiva per l’esercizio del diritto di elettorato passivo, ciò consente nei limiti fisiologici entro i quali alla legge stessa è consentito operare, cioè non retroattivamente». A maggior ragione l’irretroattività si imporrebbe nel caso concreto, data la natura sanzionatoria delle cause ostative alla carica e al suo mantenimento, e data «l’inderogabilità assoluta del principio di irretroattività nell’ambito di istituti e regimi in buona parte assimilabili alle sanzioni penali».

    In definitiva, ad avviso del giudice a quo la «questione della legittimità costituzionale del superamento del limite costituito dal divieto di retroattività della legge anche nell’ipotesi in cui la sospensione dalla carica sia prevista in caso di condanna non definitiva […] concerne la sussistenza di un eccessivo sbilanciamento» a favore della «salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica» rispetto ad altri interessi costituzionali: diritto di elettorato passivo (art. 51 Cost.), «da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché posto a fondamento del...

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