Consigli ad un giovane avvocato, (parole in un orecchio).

AutoreStefano Vinci
Pagine99-133

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@1. Il vademecum dell'avvocato penalista

Se con Le macchie sulla toga Bentini volle descrivere la condizione degli avvocati della sua epoca, attraverso la descrizione morfologica delle varie tipologie che caratterizzarono la specie, la spiegazione del significato della difesa d'arte e il ricordo di antichi esempi di eloquenza come Gaetano Manfredi, Antonio Pellegrini, Gino Vendemini e Aristide Venturini, qualche anno più tardi sentì il dovere di scrivere un vero e proprio manuale comportamentale rivolto ai giovani avvocati, che se rifugge dal titolo di Galateo, può senz'altro essere ricompreso nel genere. I Consigli di Bentini rappresentano infatti un compendio di regole elementari - ancora oggi attualissimo - sulla correttezza, sull'eleganza stilistica e sui principi ispiratori del mestiere dell'avvocato penalista.

Wolfango Valsecchi muove una critica alla troppo modestia del titolo: «Perché invece di chiamarsi Consigli a un giovane avvocato si poteva chiamare Manuale di deontologia forense, e la relazione fra titolo e contenuto non avrebbe fatto una grinza»1.

La modestia del titolo è in realtà commisurata alle dimensioni dell'opera, che - nell'idea di Bentini - doveva costituire un vademecum di veloce consultazione per gli addetti ai lavori, in cui era possibile trovare «parole nell'orecchio, garbate e sensate e per niente arroganti e petulanti»2.

Con le parole «in un orecchio» - non era il caso infatti di pronunciarle ad alta voce - Bentini intendeva «gastigare i costumi» utilizzando una forte ironia di fondo di cui risulta essere permeata l'intera opera.

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Scrive Valsecchi nella sua prefazione:

Ridere anche se il cuore piange. Metterci al volto la maschera della commedia. Calzare il socco, anche se dietro fa capolino il coturno. Castigat ridendo mores. Costumi veri, costumi vivi, costumi di quelli che si toccano con le mani. Fotografie. Come quelle dell'incidentista, l'avvocato principe, l'impoveritore ecc. delle Macchie sulla toga. [..] Una classificazione dei consigli di Bentini si potrebbe fare tra facili e difficili: perché altro è pagare il fio di un insuccesso per aver parlato a stomaco pieno, altro è finire con la lingua bucata come Cicerone o con la testa penzoloni come Pagano. Lo spillone di Fulvia e la forca dei Borboni non sono certo le prospettive più liete per un giovine collega. Se mai, con l'esempio. Ma Bentini è di quelli che l'hanno insegnato anche con l'esempio. Di quelli che sono semplicemente un nome e un cognome. Di quelli che guardano indietro e mostrano agl'ignari e ai dimentichi i dolori e le ansie onde è seminata la nostra via, la via dell'avvocatura. Quella via, dove tutti i giorni, anche senza drammatizzare, in cambio del profumo di qualche rosa sempre più solitaria, noi avvocati di toga e di battaglia ci buchiamo le mani ai rovi e agli sterpi che il preconcetto e l'incomprensione altrui ha accumulato sui nostri passi!3

L'opera si presenta in un corpo unico, non suddivisa in capitoli, ma accompagnata da brevi titoli marginali che richiamano il contenuto delle esortazioni rivolte al giovane collega; immaginario interlocutore.

I consigli offerti al giovane avvocato penalista abbracciano le più disparate situazioni di vita professionale che vanno dal rapporto con il cliente a quello con i colleghi e con i magistrati, alle regole da seguire nel pronunciare l'arringa: Bentini suggerisce di non parlare mai a stomaco pieno, perché «l'eloquenza vuole ilPage 101vuoto sotto e non groviglio di tagliatelle e gorgoglio di lambrusco»4; di non parlare mai né per primo né per ultimo5; di mantenersi casto prima del processo6; di non esaltarsi per una vittoria e non avvilirsi per le sconfitte, «se no, dovendo per forza perdere più che vincere, sarai la malinconia in persona e a spasso per i tribunali»7; di avere un proprio stile perché l'imitatore è l'uomo che ha perduto se stesso; di avere il giusto tono di voce durante l'arringa; di parlare con il cuore e di commuovere il giudicante.

La necessità di indicare le buone regole per stare in giudizio era dettata dai cattivi costumi che si erano diffusi nelle aule dei Tribunali, dove «uno si stende sul banco, e non gli manca che diPage 102dare la buona notte ai giudici, che del resto sarebbero in grado di ricambiargliela; l'altro ci picchia sopra coi pugni come se giocasse al gioco della morra; l'altro si è levato la giacca e ti stappa sotto il naso l'acre sentore dell'umanità che suda; l'altro parla con le mani in tasca e par che se le sia scordate; l'altro se ne ricorda troppo e le lancia di quà e di là come se fossero a cerniera»8.

Il filo conduttore dell'opera risulta essere «l'esaltazione della parola», intesa come tratto distintivo ed essenziale del lavoro dell'avvocato del Novecento, la cui abilità corrispondeva alla capacità persuasiva con cui riusciva ad imporsi sul pubblico, sulle folle, sulle giurie popolari e sui giudici delle Corti d'Assise9.

Il modello di eloquenza illustrato da Bentini nel suo manualetto rivela le influenze stilistiche del nuovo secolo - di cui si è già detto - che per alcuni tratti coincidevano con Y imperatoria brevitas professata dal fascismo10.

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Lo «Stile Novecento» consistente nell' abbandonare i «vezzi pleonastici degli avvocati antichi e moderni»11 traspare nei Consigli di Bentini, che suggerisce l'eloquenza sincopata12, scevra di «lazzi» e «perle giapponesi»13.

Non dire l'ermeneutica delle prove, o che una cosa impinge di qua di là, dì su e di giù, perché puzza di cataplasmo. Non dire che una circostanza è accappata, e un'altra è incartata, per dire che sono certe o a verbale, perché sa di vendita al minuto. Non dire che sulla tua causa splende la luce meriggia per non scatenare la concorrenza della luce elettrica. Non dire che strappi un argomento dalle radici, che un altro lo tagli in tronco, perché ti chiameranno l'uomo del bosco. Non dire la contradizion che nol consente, perché bene spesso in Tribunale la contraddizione finisce per consentire. Non dire che entri nel cuore della causa, perché c'entrano tutti, e il cuore delle cause è un via vai indecente. Non dire che tagli la testa al toro per non dar luogo a fatti personali. Non dire obblivione per dimenticanza, egreferenza per risentimento, animadversione per animosità; parla da uomo e non da cente-nario! E butta giù per le scale e fuori dalla finestra le brocche slabbrate, i calici scompagni, pitali rotti, del vecchio e ragnato e fiatoso vasellame curialesco!14

L'eloquenza, che Bentini definisce l'abbigliamento del pensiero, che serve per coprirlo e scoprirlo, non aveva più bisogno dell'esordio, «con le Cento Città d'Italia alla mano, la pubblicazione dell'epoca», della perorazione, degli aggettivi in coppia «come i carabinieri», delle citazioni che andavano dalla sacra scrit-Page 104tura a Paolo de Kock, dall'Olimpo al Wahalalla, come l'uva secca nel panettone: «Adesso si esordia così: Io non faccio esordio. E si perora così: Io non faccio perorazione. Ed è giusto. L'affresco non ha bisogno di addobbo»15. La parola era ormai senza la coda, ovvero non aveva più bisogno di periodi lunghi che facevano l'effetto del «fastello che penzola dalla stanga». Occorreva invece usare periodi corti perché «la vita ha fretta» e il periodo lungo «la tira per la giacca e le fa perdere un tempo prezioso»: «Ma l'immagini tu il giudice, col pensiero alla causa che viene dopo, l'assessore col pensiero alla cambiale che scade, sprofondati sino al collo nel vasto gorgo di un sopore concentrico? Va là che il periodo lungo è un dispiacere di famiglia!»16.

Il periodo lungo andava bene nei tempi andati, quando l'agricoltore attendeva sulla porta della sua casa i carri traballanti sotto il peso dei prodotti e il capitalista si limitava a tagliare i coupons, quando si aveva il tempo di aspettare che il periodo finisse anche se era lungo.

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Le mutate condizioni di vita, invece, richiedevano ritmi e tempi diversi, perchè «l'ansia di oggigiorno incalza il periodo e lo spezza»17.

L'accellerazione sociale ed economica del nuovo secolo aveva naturalmente influito sulla vita professionale: la ricomposizione sociale e il mutamento della clientela aveva comportato infatti il moltiplicarsi della domanda di servizi legali. Al privato si erano affiancati nuovi committenti, espressione delle trasformazioni eco-nomiche e sociali del paese, quali banche, compagnie, enti statali, società18. Il Cucari nel 1930 definiva gli avvocati «farfalle forensi capaci di girare, in una giornata, varie farmacie, alcune sagrestie, poi un'azienda commerciale, salire una banca, partire pel paese vicino, annaspando e pensando affari, profferendosi per qualsiasi atto buono o cattivo, fra scongiuri, vanterie, promesse e assicurazioni»19.

L'avvocato quindi doveva andare al passo con i tempi: «C'è più eloquenza nei piedi che nella testa» perché era arrivata l'ora della «della tachilogia, della parola in fretta e furia, che corre, che vola». Una volta si difendeva da fermi, adesso si difende corren-Page 106do. «Lo sport è alla sbarra, e sotto la toga spuntano i polpacci». Bentini esorta il giovane avvocato di correre al galoppo, con il fiato grosso e la lingua penzoloni, perché non c'era tempo di fermarsi: occorreva mangiare in dieci minuti, fare e disfare la valigia in cinque, fumare la sigaretta in uno, e per la strada trottare sempre20.

Bersagliere della parola! Una causa d'omicidio la si fa in mezza giornata, una causa di bancarotta in mezz'ora. Togliete la spada dalla mano della Giustizia e metteteci il cronometro. In tribunale non si fa questione che di tempo. Una volta lo si dava all'imputato, sotto forma d'anni e mesi, adesso lo si conta all'avvocato. Il Presidente dice: Le do mezz'ora... E l'avvocato: E dieci, e cinque e uno !... E l'avvocato si mangia le idee e le parole come un affamato, e parla a singhiozzi e ciangottoni. E via, e avanti, l'altra causa! Si finirà per parlare a gesti. Il P.M. dirà con le dita: Due! L'avvocato: Uno! E il Tribunale: Uno e...

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