N. 11 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 27 marzo 2012

P.Q.M.

Visti gli artt. 134 Cost. e 37, legge 11 marzo 1953, n. 87, solleva avanti la Corte costituzionale conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica, chiedendo che, dichiarata l'ammissibilita' del presente conflitto, dichiari che non spettava al Senato la valutazione della condotta addebitabile al senatore Francesco Storace nel presente procedimento penale, in quanto estranea alla previsione di cui all'art. 68, primo comma della Costituzione, con conseguente annullamento della delibera del Senato del 19 febbraio 2009, nella quale, in accoglimento della proposta della Giunta di cui alla relazione comunicata il 10 febbraio 2009 (doc. IV-quater n. 1). si affermava che le dichiarazioni 'disdicevole storia personale, palese e nepotistica conduzione familiare, evidente faziosita' istituzionale, e' indegno di una carica usurpata a maggioranza' concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e ricadono pertanto nell'ipotesi di cui all'art. 68 primo comma della Costituzione.

Sospende il presente procedimento. ordinando alla cancelleria di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale nei termini di legge.

Roma, addi' 15 giugno 2011

Il Giudice: d'Alessandro

Avvertenza:

L'ammissibilita' del presente conflitto e' stata decisa con ordinanza n. 57/2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 1 s.s., n. 11 del 14 marzo 2012.

Il Tribunale in composizione monocratica V sezione penale, a scioglimento delle riserve assunte all'udienza dell'11 maggio 2011 con riferimento alla questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla difesa e all'istanza del p.m. di sollevare conflitto di attribuzione con il Senato della Repubblica alla Corte costituzionale osserva quanto segue.

La questione di legittimita' costituzionale.

All'udienza dell'11 maggio 2011, i difensori di Storace Francesco, in fase preliminare all'apertura del dibattimento, chiedevano al tribunale monocratico di sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 313 c.p. nella parte in cui attribuisce al Ministro della Giustizia il potere di concedere l'autorizzazione a procedere per i reali di vilipendio commessi contro il Presidente della Repubblica, anzi che al medesimo Presidente.

A sostegno di tali argomentazioni, la difesa in primo luogo sottolineava la natura politica dell'atto autorizzativo. Tale natura era stata contestata in verita' dinanzi al primo giudice che, in accoglimento della eccezione difensiva, ritenendo l'autorizzazione a procedere un atto di alta amministrazione, l'aveva disapplicato per violazione della legge.

Posto che alla luce della sentenza del 28 settembre 2010 della Corte di cassazione, alla quale aveva fatto ricorso il p.m., la natura politica dell'atto non e' ulteriore oggetto di discussione, la difesa ha osservato che l'autorizzazione a procedere ha il fine di preservare il valore di rango costituzionale della figura del Capo dello Stato sia per il prestigio connesso alla piu' alta carica rappresentativa dell'unita' nazionale che tenuto conto del ruolo costituzionale rivestito e del sereno svolgimento delle funzioni connesse a quella carica.

A dispetto di cio', si legge nella memoria difensiva, spetta nell'attuale assetto costituzionale al Ministro, quale organo del Governo meglio qualificato, la valutazione in ordine al possibile sbilanciamento tra gli interessi al promovimento dell'azione penale per l'accertamento del reato e altre istanze altrettanto valide per l'assetto istituzionale dello Stato.

Il concetto e' chiarito attraverso il richiamo e il commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 15 del 17 febbraio 1969, con cui era stata dichiarata la illegittimita' costituzionale dell'art.

313 c.p. nella parte in cui attribuiva il potere autorizzativo ad un organo del potere esecutivo piuttosto che a se stessa, in quanto ne minava l'indipendenza.

La successiva sentenza n. 142 del 1973 della Corte costituzionale, nel rigettare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 313 comma 3 c.p. in relazione all'autorizzazione a procedere per reati di cui all'art. 290 c.p. di vilipendio commesso ai danni dell'ordine giudiziario, aveva affermato che la posizione dell'ordine giudiziario e' completamente diversa da quella della Corte costituzionale come precisata dalla sentenza n.

15/69, perche' a differenza della Corte (e delle Camere) l'ordine giudiziario 'non e' un collegio e non e' un organo singolo anche se complesso idoneo a porsi come titolare di un interesse pubblico differenziato e specializzato ad un tempo leso dal vilipendio e suscettibile di ricevere un danno maggiore della stessa offesa dallo svolgimento di un processo a carico dei responsabili del reato'.

Diversamente, nel caso delle 'assemblee legislative e della Corte costituzionale vi e' perfetta e piena coincidenza tra l'organo al quale l'offesa e' rivolta e l'organo al quale spetta a maggior tutela della propria indipendenza anche colta nelle sua manifestazione esteriore, la valutazione dell'opportunita' politica di consentire o meno il proseguimento dell'azione penale' (pagg. 6-7 memoria).

Pertanto, osservava la difesa, contrasta con le prerogative costituzionali del Capo dello Stato e in particolare con la sua indipendenza di potere politico (pag. 7), l'art. 313 c.p. nella parte in cui riservava al Ministro della giustizia la decisione su un atto politico destinato a preservare il sereno svolgimento delle funzioni connesse alla carica di Presidenza della Repubblica; tanto piu' in un contesto giuridico in cui la Corte costituzionale nelle sentenze nn.

22/1959, 15/1969, 91/1973 ha affermato che l'autorizzazione a procedere trova fondamento 'nello stesso interesse pubblico tutelato dalla norme penali in ordine al quale il procedimento penale potrebbe qualche volta risolversi in un danno piu' grave dell'offesa stessa'.

Ne conseguiva che il Capo dello Stato potendo subire, in caso di rilievo mediatico del processo. quello che la difesa definisce un autentico processo popolare, potrebbe patire per l'effetto un pregiudizio concreto maggiore rispetto all'entita' dell'offesa, con grave danno dell'immagine.

A conforto della propria tesi, sottolineava che l'art. 87 comma 11 Cost. attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di commutare le pene, che e' esclusiva competenza del Capo dello Stato (v. sul punto sentenza Corte Costituzionale n. 200/2006 sulla titolarita' del potere di grazia); pertanto, sarebbe illogico che la Costituzione da un lato riservasse al Capo dello Stato il potere di decidere se lo Stato possa o meno esercitare una pretesa punitiva sui cittadini e dall'altro invece lo privasse della facolta' di decidere se rimuovere o meno una condizione di procedibilita' per un reato di opinione relativo a un presunta lesione del suo prestigio (pag. 9 memoria).

La Corte costituzionale, d'altronde, ha cassato numerose disposizioni normative che attribuivano al Ministro della giustizia competenze dell'esecutivo (sentenze nn. 274/90, 192/76, 114/79; 204 1 e 110/74); cio' che dimostrerebbe che tali poteri sono un residuo del vecchio ordinamento che prevedeva la supremazia dell'esecutivo sui poteri dello Stato.

Cio' e' viepiu' dimostrato dalla natura di quegli altri reati per i quali il Ministro e' chiamato a decidere se rilasciare o meno l'autorizzazione, tutti delitti contro la personalita' dello Stato di natura politica ormai desueti e figli della legislazione fascista (244, 245, 265, 269, 273, 274, 277, 279, 287, 288 c.p.).

In definitiva, l'autorizzazione a procedere (pag. 16 memoria) non era stata concepita per conferire al Ministro della giustizia il potere di decidere arbitrariamente se dare o meno corso 'all'attivita' repressiva di reati di opinione (tanto meno verso un senatore dell'opposizione), ma per consentire al medesimo di valutare se l'interesse superiore del Paese fosse quello o meno di non aggravare conflitti politici'.

La questione e' posta in maniera suggestiva, ma non ritiene il decidente che sussista un contrasto tra il potere attribuito dall'art. 313 c.p. al ministro della Giustizia e una norma costituzionale che attenga il ruolo svolto e i poteri connessi alla carica di Presidente della Repubblica.

Prendendo le mosse proprio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 15/69, la peculiarita' dei poteri e della posizione della Corte nell'assetto costituzionale non consente invero applicazioni analogiche delle conclusioni adottate in quella sede.

L'art. 134 Cost. e l'art. 2 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 disegnano le funzioni della Corte dal sindacato di costituzionalita' sulle leggi al parere obbligatorio e vincolante sulle richieste di referendum abrogativo, dalla risoluzione dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato e tra Stato e Regioni ai giudizi penali in materia di accuse contro il Presidente della Repubblica e i Ministri, poteri supremi che si riconducono al medesimo principio: quello di 'garantire e rendere operante il principio di legalita' ...sottoponendo al rispetto delle norme costituzionali anche gli atti dei supremi organi politici statali, nonche' i rapporti intercorrenti tra questi ultimi e quelli tra lo Stato e le Regioni' (sent. 15...

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