Brevi note sulla detenzione di sostanze stupefacenti

AutoreTania Ceccarini
Pagine265-267

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Con la sentenza che si commenta, il Tribunale di La Spezia ha affrontato diverse questioni di ordine sostanziale in relazione alla configurabilità del reato di detenzione di sostanze stupefacenti.

La prima riguarda la necessarietà del fine di spaccio per qualificare la detenzione come illegale. In proposito, è appena il caso di ricordare che il D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, intervenuto dopo l'abrogazione referendaria del 18-19 aprile 1993, ha previsto quale elemento costitutivo "la destinazione allo spaccio". Sul tema, si registra un acceso dibattito in dottrina e in giurisprudenza circa la definizione della prova, onere indubbiamente a carico dell'accusa, fino ad oggi irrisolto sotto il profilo tecnico-quantitativo 1.

Il contributo alla chiarezza in questo senso del Tribunale di La Spezia è quindi meritevole della massima attenzione. In particolare, lo sforzo esegetico si incentra nell'individuazione del fine (elemento psicologico) nella materialità possesso della sostanza stupefacente. In altri termini, si tratta di riconoscere che il fine, indipendentemente dall'atto, già prima della sua estrinsecazione nella realtà 2.

È questo un percorso ricco di insidie, che non si presta neppure a facili scorciatoie, perché si tratta di contemperare due esigenze opposte o se si vuole due rischi da evitare: da un lato lasciare uno spazio troppo ampio alla valutazione del giudice di merito, dall'altro sfondare l'equilibrio della norma, ancorando il comportamento criminale alla flagranza dell'atto criminale.

La risposta, attenta e prudente del Tribunale di La Spezia, è stata nel senso di ancorare questo giudizio ad elementi oggettivi, quali ad es. "la quantità, quando sia tale da non essere compatibile con le condizioni economiche dell'impu-Page 266tato, sulle modalità di custodia dello stupefacente, sul luogo e sul modo in cui è avvenuto l'accertamento e anche sulla contestuale detenzione di specie diverse di sostanza" 3.

È questa in sostanza la tesi accolta dalla giurisprudenza della Suprema Corte, che non aveva mancato di sottolineare che "in materia di stupefacenti, per la configurazione giuridica del reato previsto dall'art. 71 cit. non è richiesta la prova della messa in commercio delle sostanze detenute, essendo sufficiente la illecita detenzione di un quantitativo obiettivamente rilevante di droga".

Principio nel quale si sente l'eco delle accese polemiche che hanno lacerato profondamente il mondo giuridico, ma anche la società civile sulla questione della prevenzione e repressione del fenomeno droga. Valga in proposito la sottile osservazione di chi ha osservato che in fin dei conti il discrimine tra consumo (non punibile) e spaccio (punibile) va individuato non tanto su arbitrarie o inutili equazioni tra quantità e spaccio", ma "sulla realtà". È proprio in questa direzione che muove la tesi che si espone: un richiamo fermo all'oggettività dei fatti. Tutto questo al fine di sgombrare il campo, insito nella predeterminazione della dose media giornaliera, sia all'estremo rigore, che coinvolgerebbe il consumatore, sia ad una larghezza eccessiva che si presterebbe agevolmente ad essere utilizzata come strumento d'impunità ingiustificata 4.

In questo senso, il contributo della sentenza si risolve nel riconoscimento esplicito che la quantità di droga costituisce "un elemento di prova", a cui vanno ad aggiungersi tutti quei fattori che concorrano a definire la realtà: il "luogo" e il "modo" dell'accertamento, la "contestuale detenzione di specie diverse di sostanze stupefacenti". È implicito nell'individuazione di questi parametri il riferimento ai criteri generali dell'accertamento giudiziario, ai quali si aggiunge "la compatibilità" della quantità di droga con le condizioni economiche dell'imputato. È questa una considerazione che ci sentiamo di condividere, pur con le opportune cautele del caso. Si avverte la necessità di un chiarimento che renda immune la categoria testé identificata (rapporto tra quantità di droga e condizioni economiche dell'imputato) da facili semplificazioni e dalle insidie dogmatiche dalle quali si è inteso rifuggire. Insomma, ciò che ci preoccupa è l'eventuale identificazione nella modestia economica dell'imputato una prova di reità e viceversa nella ricchezza. La consapevolezza della sensibilità dei giudici ci rende tranquilli dalle insidie di un razzismo economico ai danni dei più deboli, che sono anche coloro che in genere non possono permettersi la migliore difesa. Ciò nondimeno avvertiamo l'esigenza di richiamare l'attenzione su certe tortuosità in cui può inciampare la riflessione dell'interprete nella ricostruzione della realtà.

La seconda questione affrontata dal Collegio, in modo molto articolato, riguarda in generale le circostanze attenuanti.

L'esordio avviene con una considerazione particolarmente pregevole di ordine ontologico in relazione alla circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6...

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