La mediazione in materia di R.C.A. (Parte I)

AutoreGiorgio Gallone
Pagine363-375

    La II parte di questo scritto verrà pubblicata in uno dei prossimi numeri della Rivista.

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CAP. I. La compatibilità costituzionale della giurisdizione condizionata

PAR. 1. L’art. 24 Cost. e le sue limitazioni alla luce delle prime decisioni della Corte costituzionale in tema di “giurisdizione condizionata”

Il diritto del singolo di poter agire in giudizio a difesa dei propri diritti è da sempre annoverato tra quelli inviolabili dell’uomo che la Carta Costituzionale garantisce all’art. 2 (Corte cost. 98/65). Assicurare a tutti e sempre, e per qualsiasi controversia, un giudice ed un giudizio rientra, quindi, tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale (Corte cost. 18/82).

Per cogliere il significato e la portata di un diritto inviolabile, qual è quello di difesa, si deve assolutamente porre in relazione il diritto con il riconoscimento dello stesso enunciato nella prima parte dell’art. 24 Cost., ove è specificato che ogni cittadino può agire in giudizio per la tutela dei propri diritti (Corte cost. 46/57). L’uso delle parole “tutti possono agire in giudizio” ha chiaramente lo scopo di affermare l’uguaglianza di diritto e di fatto di tutti i cittadini per quanto concerne la possibilità di richiedere ed ottenere la tutela giurisdizionale nei confronti di altri privati (Corte cost. 21/61).

Nei primi anni sessanta sono state, ad esempio, ritenute illegittime (Corte cost. 67/60; 21/61; 79/61; 45/62; 86/62; 100/64) tutte quelle disposizioni che imponevano oneri (nel caso di specie economici) quale presupposto imprescindibile dell’esperibilità dell’azione giudiziaria: queste si ponevano in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.. Secondo la Corte (Corte cost. 21/61) le stesse contrastavano con l’art. 3 Cost. per la differenza di trattamento che ne conseguiva fra: 1) la parte che era in grado di pagare immediatamente e 2) la parte che non aveva mezzi sufficienti, né poteva procurarseli agevolmente ricorrendo al credito. Alla prima era consentito, proprio in conseguenza delle sue condizioni economiche, di chiedere giustizia e di ottenerla; alla seconda tale facoltà era resa difficile, e, talvolta, impossibile in forza di un presupposto processuale stabilito dalla legge e consistente nell’onere del versamento di una somma (Corte cost. 21/61).

Tali dichiarazioni di incostituzionalità, rese già nei primi anni sessanta, hanno reso concreto, e non soltanto apparente, il diritto alla prestazione giurisdizionale, fondamentale in ogni ordinamento basato sulle esigenze indefettibili della giustizia e sui cardini di uno Stato di diritto (Corte cost. 46/57). Le medesime esigenze sussistono, però, anche nel ventunesimo secolo, in un periodo in cui previsione e certezza sono ancora più sentiti nel mondo del diritto. In particolare la certezza del diritto, con forme e termini volti ad impedire incertezze nei rapporti giuridici, non solo è un requisito essenziale di un valido sistema legislativo ma è anche la sua stessa ragion d’essere.

Questo essendo lo spirito dell’art. 24 Cost. in sé, e nel suo collegamento con l’art. 3 della Costituzione, vediamo ora di esaminare se, secondo le prime decisioni della Corte Costituzionale, le disposizioni che subordinavano, e che, come meglio vedremo successivamente, ancora oggi subordinano la tutela giurisdizionale ad adempimenti pre-processuali possono ostacolare, rendere difficoltosa, pregiudicare o, addirittura, impedire la difesa dei diritti innanzi all’autorità giudiziaria.

Il previo esperimento di rimedi amministrativi, o di ricorsi gerarchici, come condizione di procedibilità in giudizio è da sempre inquadrato dalla giurisprudenza nella più vasta tematica della c.d. “giurisdizione condizionata”.

Secondo la miglior dottrina (TROCKER, Processo civile e costituzione, Milano, 1974, 235) in tale denominazione si raggruppano fattispecie diverse ed eterogenee: accanto alle ipotesi in cui l’esperimento dell’azione giurisdizionale è subordinato alla previa presentazione di rimedi di carattere amministrativo, od al previo esaurimento dei procedimenti previsti per la composizione delle controversie in sede amministrativa, se ne riscontrano altre.

Una di queste, per quel che qui interessa, è quella che subordina la proposizione della domanda giudiziale alla previa “comunicazione” all’assicuratore della richiesta del risarcimento del danno ed al successivo decorso dello “spatium deliberandi”.

Agli inizi degli anni settanta la Consulta (Corte cost. 24/73; Corte cost. 19/75), chiamata a pronunciarsi sulla

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costituzionalità dell’art. 22 della L. 990/1969, oggi art. 145 del C.d.A., ha per due volte affermato che tale norma deve ritenersi costituzionalmente legittima in quanto la stessa mira ad evitare che l’immediato esercizio dell’azione giudiziaria si risolva in pregiudizio di preminenti esigenze di interesse sociale, tutto ciò richiamandosi alla sua precedente giurisprudenza in tema proprio di giurisdizione condizionata (Corte cost. 57/72; Corte cost. 130/70).

Per venticinque anni la Corte Costituzionale ha ritenuto legittimo il subordinare l’azione giudiziaria a previ rimedi amministrativi obbligatori (giurisdizione condizionata).

Per la prima volta, agli inizi degli anni sessanta, con le decisioni n. 107/63 e n. 47/64, la Consulta ritenne che la subordinazione della facoltà di adire l’autorità giudiziaria ad un previo ricorso in via amministrativa fosse legittima in quanto, in una materia dalla quale non esula un interesse pubblico, il preventivo ricorso in via amministrativa (nella prima decisione nei confronti dell’Ispettorato del lavoro, nella seconda nei confronti dell’INPS) tendeva ad evitare, per quanto possibile, le liti giudiziarie, laboriose e dispendiose, venendo meglio incontro alle esigenze collettive di celerità e di scioltezza nella soluzione delle controversie (Corte cost. 107/63).

Le disposizioni che impongono oneri diretti ad evitare l’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale avevano lo scopo di indirizzare il diritto di azione verso un suo uso adeguato, ancorandolo ad una determinazione dell’opportunità di promuovere l’azione giudiziaria che maturi dopo un apprezzamento della fondatezza della pretesa compiuta alla stregua delle risultanze emerse in un procedimento preliminare di natura amministrativa (Corte cost. 47/64).

Un tale sistema era finalizzato ad un’esigenza di economia processuale e, quindi, ad un interesse della stessa funzione giurisdizionale, assicurando al titolare della posizione sostanziale un modo di soddisfazione della pretesa facilmente invocabile attraverso la garanzia di una conoscenza integrale della posizione del debitore (nel caso di specie l’INPS) che gli consentiva di deliberare sull’opportunità di esperire l’azione giudiziaria, riducendo, conseguentemente, il rischio di soccombenza in giudizio (Corte cost. 47/64). L’adempimento dell’onere si risolveva, inoltre, in un vantaggio per il creditore in quanto quest’ultimo trovava nel procedimento amministrativo un modo di soddisfazione della pretesa non dispendioso: il costo degli accertamenti svolti nel procedimento restava, infatti, a carico del debitore (Corte cost. 47/64).

Tra l’altro, aggiungeva la Corte (Corte cost. 107/63), la previsione di rimedi amministrativi obbligatori, necessari per la rapida definizione delle questioni insorte, era applicata con successo in moltissime altre materie.

L’interpretazione favorevole al condizionamento dell’azione al previo esperimento di procedure amministrative è stata smentita dalla Consulta a partire dalla decisione numero 530 del 1989: questa ha avviato un processo di sistematica censura della giurisdizione condizionata non solo nell’ipotesi di preventivi obbligatori ricorsi amministrativi ma anche nel caso di previ reclami gerarchici.

Malgrado ciò nel nostro ordinamento risultano tutt’ora vigenti due disposizioni legislative che ancora prevedono il preventivo rimedio amministrativo prima di poter agire avanti l’autorità giudiziaria.

Il D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, Testo Unico delle norme concernenti gli assegni familiari, prevede all’art. 55 che compete al Comitato speciale per gli assegni familiari, presieduto dal Presidente dell’INPS, decidere sui ricorsi riguardanti contributi ed assegni; l’esercizio dell’azione contro le decisioni del Comitato è condizionato dalla proposizione di un ricorso in via amministrativa da presentarsi nel termine di 30 giorni dalla comunicazione al Ministero del lavoro e della previdenza sociale.

L’art. 55 stabilisce che l’azione dell’interessato avanti all’autorità giudiziaria può, comunque, essere proposta solo successivamente, ed entro 30 giorni decorrenti dalla comunicazione della decisione da parte del Ministero.

In materia di previdenza sociale l’art. 97 del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, condizionava la proposizione del ricorso in via contenziosa avverso i provvedimenti concernenti le concessioni delle prestazioni assicurative da parte dell’Istituto nazionale della previdenza sociale alla preventiva definizione del ricorso in sede amministrativa.

Tale previsione è stata abrogata dagli artt. 44-47 del D.P.R. 30 aprile 1970 n. 639; questi ultimi, a loro volta, sono stati sostituiti dall’art. 46 della L. 9 marzo 1989 n. 88. Questa norma dispone, tra l’altro, che il Comitato provinciale dell’INPS decide in via definitiva i ricorsi avverso i provvedimenti dell’Istituto concernente la pensione sociale; il termine per ricorrere al Comitato provinciale è di 90 giorni dalla data di comunicazione del provvedimento impugnato.

L’art. 46 statuisce, inoltre, che solo trascorsi inutilmente 90 giorni dalla data di presentazione del ricorso gli interessati hanno facoltà di adire l’autorità giudiziaria.

PAR. 2. Il più recente orientamento della Corte costituzionale in tema di giurisdizione condizionata

Sino alla fine degli anni ottanta la Corte Costituzionale aveva sempre ritenuto legittime quelle norme che, sul presupposto di salvaguardare interessi generali, disciplinavano l’esercizio...

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