L'inadeguatezza dei compensi previsti per gli ausiliari del magistrato penale (D.P.R. N. 352 del 1988) e la liquidazione della perizia medico-legale in particolare

AutoreDomenico Potetti
Pagine473-478

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@1. Introduzione

La fondamentale rilevanza dell'opera prestata dagli ausiliari del magistrato penale deriva, a ben vedere, dalla stessa funzione del procedimento penale: l'accertamento della verità storica, presupposto naturale perché ai fatti così accertati possa applicarsi l'ordinamento dello Stato.

È evidente, poi, che il progredire della scienza ha fornito anche al procedimento penale nuovi strumenti per lo svolgimento di quella funzione; ma ciò non è avvenuto senza conseguenze sul piano dei compiti rimessi a coloro che operano nell'ambito del procedimento.

Nel tempo infatti, tale funzione (di accertamento della verità storica) tende sempre di più ad essere condivisa (dal magistrato penale) con altri operatori del processo, fra i quali emergono, per il fondamentale rilievo del loro apporto, i periti e i consulenti tecnici. Emergono, però, non senza porre, oggettivamente, il non secondario problema del compenso loro spettante (la professionalità, si sa, ha un costo).

Vengono allora in esame, in particolare, la legge 8 luglio 1980, n. 319, e il D.P.R. 27 luglio 1988, n. 352.

Nell'ambito, poi, del D.P.R. n. 352/1988, si pone il problema dei compensi spettanti ad una delle categorie più importanti di ausiliari del magistrato, ossia a quella dei medici legali, il cui compenso è previsto segnatamente (per il procedimento penale) dall'art. 20; e da qui nascono le dolenti note.

Infatti, a prescindere dagli irrisori onorari di cui al comma 1 (previsti per il caso di «... immediata espressione del giudizio...»), il successivo comma 2 (riferito al caso in cui «... il parere non possa essere dato immediatamente e venga presentata una relazione scritta...») non concede molto di più (al massimo lire 178.000 per visite medico-legali, e lire 476.000 per accertamenti su cadavere).

Non c'è bisogno di dilungarsi sullo stridente contrasto fra una tale «mercede» e l'estrema delicatezza e importanza che le prestazioni del medico-legale possono assumere nel procedimento penale; procedimento che, di fatto (a prescindere dall'anacronistica ed ipocrita formuletta, che vorrebbe fare del magistrato «tuttologo» il peritus peritorum), da quelle prestazioni può essere, in definitiva, deciso (con palesi ricadute, potenzialmente enormi, sugli interessi vitali delle persone: si pensi al processo di corte d'assise).

Per l'interprete è quindi istintivo chiedersi se possano rinvenirsi, nell'ordinamento, rimedi che consentano al magistrato penale, non di arricchire il medico-legale, ma almeno di compensarlo in misura non risibile.

@2. L'inadeguatezza dei compensi a confronto con la Costituzione (artt. 36 comma 1, 35 comma 1, 3, 53 comma 1, 108 comma 2 della Costituzione)

Poste come sopra le premesse, l'esame della relativa problematica in chiave costituzionale ne deriva come conseguenza naturale.

Sennonché, già si pone un primo ostacolo, quantomeno all'interpello diretto della Corte costituzionale.

Infatti, il D.P.R. n. 352 del 1988 (con il relativo art. 20) è un atto che, in difetto dei presupposti costituzionalmente richiesti, non può essere qualificato atto avente forza di legge, ed è perciò sottratto al sindacato della Corte costituzionale 1.

Pertanto, o le eventuali eccezioni di incostituzionalità andrebbero appuntate (ove tecnicamente possibile) alla fondamentale L. 8 luglio 1980, n. 319, oppure i problemi di costituzionalità andrebbero risolti in chiave ermeneutica, secondo il fondamentale principio per il quale l'interprete, fra più interpretazioni della stessa norma giuridica è tenuto a scegliere quella costituzionalmente corretta.

Detto questo, passando in rassegna le norme costituzionali coinvolte, è ovvio invocare, anzitutto, quella di cui all'art. 36 comma 1 Cost.: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa».

È in molti casi evidente che la liquidazione della perizia medico-legale, effettuata ai sensi dell'art. 20 del D.P.R. n. 352/88, viola senza dubbio il suddetto criterio della proporzionalità; ed il ricorso costante al meccanismo correttivo di cui all'art. 5 della L. n. 319 del 1980 rappresenta, altrettanto spesso, una forzatura; ed infatti (ma nel seguito si tornerà più accuratamente sull'argomento), la liquidazione di lire 178.000 risulta di regola chiaramente sproporzionata (a danno del medico legale) anche in casi in cui non si tratta di «... prestazioni di eccezionale importanza, complessità e difficoltà...», e quindi, a rigore, sarebbe precluso il ricorso all'art. 5 della L. n. 319 del 1980.

Senza contare, poi, che il raddoppio di tale miserrima somma non risolverebbe il problema della perdurante sproporzione.

Si era poi rilevato, nella giurisprudenza di merito, che la considerazione secondo la quale si tratta di un ufficio legalmente dovuto, quindi non assimilabile ad un'attività lavorativa in senso proprio, non elimina il problema di costituzionalità (art. 36 Cost.) perché le indennità costituiscono pur sempre compensi, e quindi debbono rappresentare un serio ristoro per il professionista, il quale peraltro non può nemmeno rifiutarsi di adempiere al suo incarico 2.

Ma il rimedio dell'art. 36 comma 1 Cost., apparentemente così logico e risolutivo, è già stato vanificato dalla stessa Corte costituzionale. Page 474

Chiamato a pronunciarsi sull'abrogata (dall'art. 13 L. n. 319/80) normativa di settore, e specificamente sulla L. 1 dicembre 1956, n. 1426 (artt. 2, 3 e 4, in riferimento all'art. 36 comma 1 Cost.) il giudice delle leggi 3 affermava, in sintesi, che i consulenti tecnici di ufficio (ma dette considerazioni valgono anche per i periti, e infatti la stessa Corte assimila le due situazioni) sono ausiliari del giudice, e quindi non possono essere considerati (per quanto riguarda la valutazione delle loro prestazioni e la liquidazione del relativo compenso) come dei puri e semplici lavoratori autonomi; e da tale mancata assimilazione deriva la legittima diversità dei relativi compensi. D'altra parte non è escluso, affermava la Corte, che la minore entità dei compensi spettanti ai consulenti d'ufficio trovi riscontro nell'esigenza di carattere pubblico di contenimento delle spese giudiziali, con l'implicita e sostanziale imposizione di prestazioni personali a carico di determinate categorie di persone.

Non è quindi utile, secondo la Corte, porre a confronto i compensi del C.T.U. con quelli del corrispondente lavoratore autonomo.

Nemmeno è utile, sosteneva ancora la Corte, porre a confronto i compensi spettanti al C.T.U. e quelli spettanti a determinati lavoratori subordinati, non essendovi omogeneità fra i due tipi di prestazioni, ed essendo diverse le situazioni economico-sociali di coloro che le realizzano.

Venendo (a parte i profili di disparità di trattamento) più specificamente al parametro di costituzionalità invocato nel caso di specie (art. 36 comma 1 Cost.), la Corte valorizzava ancora le peculiarità della funzione del C.T.U., sostenendo che il suo lavoro non si presta ad entrare in uno schema che involga un necessario e logico confronto tra prestazioni e retribuzione, e con ciò, quindi, un qualsiasi giudizio sull'adeguatezza e sufficienza della retribuzione stessa.

Inoltre, aggiungeva la Corte, non c'è modo di valutare in che misura il lavoro del C.T.U. incida nella complessiva sua attività, e in che modo i compensi percepiti come C.T.U. (a prescindere dalla difficoltà di calcolarne la totale entità) concorrano a formare l'intero reddito professionale del singolo lavoratore.

Dunque, secondo la Corte, il C.T.U. (idem per il perito) non è semplicemente un lavoratore (autonomo) qualsiasi, bensì un collaboratore del giudice, ed è principalmente questo l'argomento che, a ben vedere, giustifica, sul piano dell'art. 36 comma 1 Cost., la possibilità di corrispondergli compensi del tutto inadeguati rispetto al lavoro svolto.

L'argomento del munus publicum, giustificativo in pratica del trattamento deteriore dell'ausiliario del giudice, ricorre anche nella giurisprudenza di legittimità 4.

Ed è stato successivamente lo stesso legislatore a sfruttare e consacrare l'argomento, nel testo dell'art. 2 comma 1 della L. n. 319 del 1980. Qui si dice, infatti, che «La misura degli onorari... è stabilita... con riferimento alle tariffe professionali... contemperate dalla natura pubblicistica dell'incarico...».

La Corte ha poi coerentemente completato l'opera 5, da un lato rinviando alle argomentazioni della sent. n. 88 del 1970 (in riferimento all'art. 36 Cost.), e dall'altro sottolineando che il riferimento fatto dall'art. 2 della L. n. 319 del 1980 alle tariffe professionali non può essere considerato come un rinvio recettizio, ma rappresenta solo l'indicazione di un possibile, non tassativo, parametro di liquidazione (peraltro per i soli onorari fissi e variabili, e non per quelli commisurati al tempo: art. 1 comma 2 L. n. 319 del 1980), da contemperarsi con la natura pubblicistica dell'incaricato.

Nella giurisprudenza di legittimità si sono assunte posizioni conformi all'insegnamento della Corte costituzionale, affermandosi l'inesistenza di un contrasto delle indennità in questione con l'art. 36 Cost., non potendosi considerare gli ausiliari del giudice come semplici lavoratori autonomi 6.

L'inadeguatezza dei compensi spettanti agli ausiliari del giudice mostra, ad una prima osservazione, profili di incompatibilità anche con la più generale norma di cui all'art. 35 comma 1 Cost. («La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»), ma secondo la Corte costituzionale anche questa questione non è fondata, sul rilievo, anche in questo caso, secondo il quale gli ausiliari del giudice non possono essere considerati come meri lavoratori autonomi 7.

Venendo ora più specificamente al profilo del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), già sopra si è visto come la Corte costituzionale abbia dissipato taluni dubbi di costituzionalità...

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