Fusione per incorporazione di società in perdita e bare fiscali: riflessi penali. Brevi note

AutoreFederico Piccichè

Page 635

Inizio prendendo spunto da una risoluzione1 dell’Agenzia delle Entrate del 10 aprile 2008, resa a seguito della proposizione di un’istanza di interpello concernente l’interpretazione dell’articolo 172, comma 7 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.2

La società istante, dopo avere esercitato per un certo periodo di tempo, l’attività di holding di partecipazioni, nell’ambito di un piano di riorganizzazione aziendale infragruppo, reso necessario dalle avverse condizioni di mercato, procedeva all’incorporazione di due società da essa controllate, variando denominazione ed oggetto sociale.

Tale operazione di fusione per incorporazione, dal momento che una delle due società incorporate presentava perdite pregresse, doveva effettuarsi tenendo conto delle regole tracciate dal comma 7 dell’art. 172 del TUIR, che disciplinano minuziosamente il riporto delle perdite in caso di fusione.

La società incorporante, al riguardo, aveva dubbi circa i cosiddetti requisiti di “vitalità economica”, che devono sussistere per potere correttamente procedere al riporto delle perdite.

L’Agenzia delle Entrate, in risposta all’interpello, precisava: “L’articolo 172, comma 7, del TUIR disciplina - con finalità antielusive - le condizioni alle quali è consentito il riporto delle perdite in occasione di fusioni societarie. Tale disciplina, come noto, intende contrastare le operazioni di commercio delle c.d. “bare fiscali” e, a tal fine, prevede - tra l’altro - che le perdite delle società partecipanti all’operazione, compresa l’incorporante, possano essere riportate a seguito della fusione solo se le società che le hanno realizzate abbiano conseguito, nell’esercizio precedente a quello di delibera della fusione, un ammontare di ricavi o proventi dell’attività caratteristica e sostenuto spese per prestazioni di lavoro subordinato, di ammontare superiore al 40% della media degli ultimi due esercizi anteriori”.

Secondo l’autorevole opinione dell’Agenzia delle Entrate, dunque, con la disposizione su menzionata, il legislatore si prefigge come obiettivo quello di mettere al bando ogni tentativo da parte dei contribuenti di utilizzare, in modo strumentale, le perdite di altri soggetti al fine di provocare indebite erosioni dell’imponibile.

Ciò accade, ad esempio, quando in una fusione, la società incorporanda è assolutamente priva di vitalità e l’intera operazione risulta essere sfornita di valide ragioni economiche e dominata, solo, dall’intento di utilizzare le perdite della società incorporanda per erodere l’imponibile della società incorporante.

Premesso questo, diventa fondamentale adesso mettere in luce i rigorosi parametri che consentono di classificare un’operazione come elusiva, al fine di poterla distinguere dalla evasione in senso stretto e di provare a dare una risposta al problema (costituente il tema di queste brevi note) della possibile rilevanza penale del commercio delle bare fiscali.3

Il comma 1 dell’art. 37 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, recita: “Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.

Con queste parole, il legislatore fissa i presupposti che determinano il carattere elusivo del comportamento tenuto dal contribuente, che consistono nel compimento di una determinata operazione, nell’assenza di una ragione che economicamente la giustifichi e nell’intento di sottrarsi ai doveri tributari per conseguire indebiti vantaggi fiscali.4

Più in dettaglio.

L’ordinamento tributario italiano impone a tutti di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva in un contesto che riconosce al singolo contribuente un’ampia libertà di azione nella scelta di soluzioni che siano fiscalmente più vantaggiose di altre.

Il variegato coacervo delle norme tributarie è in grado di offrire una vasta gamma di opzioni che possono portare il contribuente, che decida di utilizzarle nel pieno rispetto della ratio delle leggi tributarie, a legittime forme di risparmio fiscale.

Tutto questo, però, presuppone che degli strumenti offerti dalle norme non si faccia abuso.

E questo abuso sorge quando gli atti, attraverso cui si estrinseca l’operazione, sono tutti piegati verso scopi non tollerati dal sistema, che reagisce disconoscendo i vantaggi tributari conseguiti mediante l’operazione elusiva.

Ad una offesa, perché tale può nella sostanza considerarsi una condotta elusiva, lo Stato reagisce sollevando lo scudo della inopponibilità e, cioè, dichiarando radical- mente priva di effetti, in faccia all’amministrazione finanziaria, la condotta abusiva.

Il contribuente è libero di agire come meglio crede, ma a condizione che i mezzi che adopera non siano tali da consentirgli l’incameramento di indebiti guadagni.

Un comportamento di questo genere sarebbe palesemente agli antipodi della regola, imposta dalla stessa Costituzione, che obbliga tutti a contribuire secondo la propria capacità contributiva sulla base di criteri informati dalla progressività.5

Page 636

Chi pone in essere atti in modo distorto, avendo come unico fine quello di aggirare le norme tributarie per conseguire lucri indebiti, calpesta il sacrosanto...

Per continuare a leggere

RICHIEDI UNA PROVA

VLEX uses login cookies to provide you with a better browsing experience. If you click on 'Accept' or continue browsing this site we consider that you accept our cookie policy. ACCEPT