Pericolosità sociale e diritto penale del nemico

AutoreLorenzo Delli Priscoli; Fabio Fiorentin
Pagine425-431

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@1. Rieducazione del condannato e pericolosità sociale

– Nel diritto dell’esecuzione penitenziaria e in particolare con riguardo alle misure alternative alla detenzione (artt. 47 ss. della legge 26 luglio 1975, n. 354, c.d. “Ordinamento penitenziario”, di seguito abbreviato in Ord. pen.) si assiste ad un continuo conflitto tra due opposte esigenze: la prima è quella di tentare la rieducazione del condannato e favorirne il più possibile il reinserimento sociale, secondo il principio codificato dal Costituente (art. 27, co. 3, Cost.), anche al fine di impedire che egli possa delinquere dopo aver espiato la pena (in ciò si condensa la funzione rieducativa della pena); la seconda è quella di impedire che il condannato possa delinquere durante il periodo dell’espiazione della pena (e tale profilo attiene all’esigenza di prevenzione, parimenti sussunta dal dettato normativo: art. 47, Ord. pen.). Il difficile equilibrio tra i due obiettivi è in massima parte affidato ad una valutazione del magistrato di sorveglianza sulla pericolosità sociale del condannato (art. 203 c.p.): quanto più quest’ultimo verrà considerato pericoloso per la collettività, tanto più il magistrato dovrà scegliere di far scontare la pena in carcere o attraverso misure alternative alla detenzione che tengano il condannato “vicino” al carcere (ad esempio mediante la semilibertà – art. 50 Ord. pen. – che obbliga il condannato a restare nell’istituto penitenziario nelle ore notturne e lo pone in contatto più o meno continuo con l’amministrazione penitenziaria durante il giorno); quanto più invece il soggetto verrà ritenuto non pericoloso, tanto più il magistrato potrà optare per una forma di espiazione della pena “lontana” dal circuito penitenziario (ad esempio tramite l’affidamento in prova ai servizi sociali – art. 47 Ord. pen. – che recide ogni contatto con il carcere e l’amministrazione carceraria).

Nel compiere questa delicatissima valutazione discrezionale circa la pericolosità del condannato, il magistrato di sorveglianza deve tenere conto di alcuni parametri (cfr. artt. 203 e 133 c.p.), fra i quali vi è non solo il comportamento tenuto successivamente al reato, ma anche la gravità stessa del reato commesso. A sua volta, la gravità del reato si misura in parte in relazione al tipo di reato commesso in astratto (ad esempio, un omicidio è considerato più grave di un’ingiuria); in parte in relazione al tipo di reato commesso in concreto (ad esempio un furto di un quadro di grande valore è più grave del furto di una mela). Alcune norme in tema di misure alternative alla detenzione valorizzano però a tal punto la tipologia astratta del reato commesso, ossia quello che – come si è detto – è solo un aspetto fra i tanti da valutare al fine di raggiungere il giudizio finale circa la pericolosità di un soggetto, da limitare fortemente la discrezionalità del magistrato di sorveglianza nella scelta della misura alternativa alla detenzione.

Ad esempio, stabilisce l’art. 50 Ord. pen. che i condannati per taluni reati (indicati nell’art. 4 bis Ord. pen.), tra i quali il reato di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p., non possono accedere alla misura alternativa alla detenzione della semilibertà se non abbiano già espiato almeno i due terzi della pena complessiva irrogata. Tale preclusione invece non esiste per altri reati, considerati in astratto dal legislatore “meno gravi” (tra i quali i reati contro la P.A.). L’ultima parte del secondo comma dell’art. 50, Ord. pen., infatti, stabilendo che se la pena detentiva ancora da scontare è superiore ai sei mesi ma non supera i tre anni e al contempo mancano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale (ossia l’affidamento stesso possa contribuire alla rieducazione del reo e possa prevenire il pericolo che egli commetta altri reati) regola la cosiddetta semilibertà “surrogatoria”, consentendo appunto agli autori di alcuni reati di accedere alla semilibertà. Considerando che il reato di violenza sessuale comprende anche condotte “minori, un tempo facenti parte del reato ora abrogato di atti di libidine violenti (art. 521 c.p.), pure comportamenti quali baci o abbracci anche su parti del corpo non scoperte sono dunque dal legislatore considerati idonei ad impedire la concessione della semilibertà; al contempo tale impedimento non è ravvisato nell’ipotesi in cui sia stata commessa un’estorsione (art. 629, c.p.) o la corruzione di un magistrato (art. 319 ter, c.p.).

@2. La semilibertà “surrogatoria” dell’affidamento in prova al servizio sociale

– La disciplina della semilibertà “surrogatoria” dell’affidamento in prova al servizio sociale nella sua attuale configurazione è il frutto della modifica della disposizione di cui all’art. 50, co. 2, Ord. pen., avvenuta una prima volta con la vasta riforma penitenziaria del 1986 (art. 14 L. 10 ottobre 1986, n. 663, c.d. “legge Gozzini”), ed in seguito con l’art. 5 L. n. 165 del 1998 (c.d. legge “Simeone”). La Corte costituzionale, con la sentenza n. 338 del 2008, ha esaminato il rapporto tra l’affidamento in prova al servizio sociale di cui all’ art. 47, Ord. pen., e la semilibertà “surrogatoria”. La Corte, delibando una questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di sorve-Page 426glianza di Roma, ha dichiarato infondato il dubbio di costituzionalità dell’art. 50, co. 2, Ord. pen., in riferimento all’art. 3, Cost. e in particolare al principio di ragionevolezza, nella parte in cui la norma impugnata prevede che i condannati per uno dei reati indicati nel co. 1, seconda parte, dell’art. 4 bis della stessa legge, qualora il residuo della pena non sia superiore ai tre anni, possano essere ammessi al regime di semilibertà solo qualora abbiano espiato i due terzi della pena, mentre, in tale ipotesi, ai medesimi soggetti è pur sempre consentito di accedere alla più ampia misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. La questione di costituzionalità è stata sollevata da un magistrato di sorveglianza chiamato a valutare un’istanza di affidamento in prova al servizio sociale formulata da un condannato per un delitto di cui all’art. 4 bis, co. 1, seconda parte, Ord. pen., il quale, pur non essendo ritenuto meritevole della concessione dell’ampio beneficio richiesto, era stato, tuttavia, valutato dal tribunale di sorveglianza idoneo all’ammissione al regime di semilibertà. Nel caso di specie, tuttavia, l’applicazione di tale misura era preclusa dalla disposizione dubitata di incostituzionalità, atteso che il condannato non aveva ancora espiato i due terzi della pena in esecuzione (l’aggravamento delle condizioni per l’ammissione al regime di semilibertà sotto il profilo della quota maggiorata di pena che il condannato deve avere espiato è stato introdotto dall’art. 1, co. 4, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, recante “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata”, convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203).

Secondo il giudice a quo la disciplina di cui all’art. 50, comma 2, Ord. pen. sarebbe irragionevole, atteso che “interrompe il rapporto di continenza tra l’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale e quello della semilibertà, entrambi ispirati al sistema progressivo, imperniato sulla graduale attenuazione della detenzione in ragione del comportamento del detenuto ed in funzione preparatoria al suo ritorno alla libertà”. Che tra i due istituti posti a raffronto intercorra un siffatto rapporto nel più ampio quadro del trattamento finalizzato alla rieducazione del condannato sarebbe dimostrato – osserva ancora il rimettente – proprio dalla previsione secondo cui, nel caso di condanna a pena inferiore ai tre anni, la semilibertà è concedibile senza particolari restrizioni nel caso in cui «mancano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale».

La Corte osserva che i due benefici penitenziari in raffronto, lungi dal rappresentare fattispecie “omogenee” costituiscono anzi – come già affermato dalla propria giurisprudenza (sent. n. 100 del 1997) misure caratterizzate da una «sostanziale diversità di presupposti». Il criterio discretivo tra la misura di cui all’art. 47, Ord. pen., ed il regime di semilibertà sarebbe dunque il seguente: ai fini dell’ammissione del condannato all’affidamento in prova al servizio sociale, è infatti necessario che il giudice possa formulare una prognosi di rieducazione del reo, anche attraverso le prescrizioni inerenti alla misura, e di ragionevole assenza, nel caso di specie, del rischio di recidiva. In altri termini, secondo la Corte, il condannato, per aspirare alla misura più ampia deve presentare un quadro criminologico tale da far ritenere...

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