Sentenza nº 10 da Constitutional Court (Italy), 31 Gennaio 2023

RelatoreGiovanni Amoroso
Data di Resoluzione31 Gennaio 2023
EmittenteConstitutional Court (Italy)

Sentenza n. 10 del 2023

SENTENZA N. 10

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente:

Silvana SCIARRA;

Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco DALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Arezzo nel procedimento vertente tra L. V. e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Arezzo, con ordinanza del 26 aprile 2021, iscritta al n. 150 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 30 novembre 2022 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

deliberato nella camera di consiglio del 19 dicembre 2022.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza depositata il 26 aprile 2021 (r. o. n. 150 del 2021), la Commissione tributaria provinciale di Arezzo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario.

    In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce che l’Agenzia delle entrate, a seguito di indagini finanziarie e, segnatamente, sulla scorta delle risultanze di conti correnti bancari, recanti versamenti per euro 167.588,65 e prelevamenti per euro 117.958,35, entrambi non giustificati, aveva accertato una maggiore base imponibile di un imprenditore individuale sia per le imposte dirette, quali l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), sia per l’imposta sul valore aggiunto (IVA) per l’anno 2013.

    L’atto di accertamento del 7 dicembre 2018 veniva impugnato dal contribuente che, a fondamento del ricorso, deduceva in particolare che l’ufficio, nel rideterminare l’imponibile per la quantificazione delle imposte dirette, sommando i versamenti e i prelevamenti delle movimentazioni sui propri conti correnti, non aveva tenuto conto, se non in parte, delle giustificazioni fornite dallo stesso per superare la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973.

    La CTP evidenzia che la predetta norma pone infatti una presunzione relativa – che, in accordo con la giurisprudenza dominante, può essere superata solo mediante «prove rigorose, e non con presunzioni» – per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario, ove superino gli importi di euro 1.000,00 giornalieri e comunque di euro 5.000,00 mensili.

    Osserva il giudice a quo che analoghe questioni di legittimità costituzionale della disposizione censurata, con riferimento alla presunzione relativa ai prelevamenti, erano state sollevate già in passato e, tuttavia, questa Corte, con la sentenza n. 225 del 2005, aveva dichiarato non fondate le relative questioni ritenendo, per un verso, non manifestamente arbitraria la presunzione e, per un altro, non violato il principio di capacità contributiva, in ragione della possibilità, riconosciuta nella giurisprudenza di legittimità, di dedurre in via forfettaria i costi sostenuti per la produzione dei ricavi non dichiarati.

    Rammenta, inoltre, la CTP rimettente che questa stessa Corte, con la successiva sentenza n. 228 del 2014, ha invece ritenuto fondate le analoghe questioni sollevate con riferimento all’estensione, per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)», della presunzione di equiparazione dei prelievi ai compensi con riguardo ai professionisti, rilevando che l’attività degli stessi è caratterizzata dalla preminenza dell’apporto del lavoro proprio rispetto all’apparato organizzativo e che la previsione per i medesimi professionisti, da parte del legislatore, di sistemi di contabilità semplificata rende difficile distinguere l’origine, correlata a spese per la vita personale o per l’attività professionale, delle spese effettuate dal contribuente.

  2. – Ciò premesso, il giudice a quo, in punto di non manifesta infondatezza, assume la possibile violazione, da parte della norma censurata, dell’art. 3 Cost., sul piano dell’intrinseca ragionevolezza, atteso che: a) in mancanza di giustificazione, un prelievo dal conto può essere attribuito, altrettanto ragionevolmente, a costi d’impresa quanto a spese personali, specie nell’ipotesi di piccoli imprenditori individuali che abbiano optato (come il contribuente nel giudizio presupposto) per il regime di contabilità semplificata; b) l’acquisizione di fattori produttivi, in ogni caso, avrà in ipotesi prodotto entrate che sono state contabilizzate, e quindi dichiarate, oppure, in caso contrario, già considerate nell’accertamento quali versamenti ingiustificati, con conseguente effetto di «duplicare la posta» se sono sommati i prelevamenti.

    A fondamento del dubbio di legittimità costituzionale correlato alla violazione del principio di ragionevolezza, inoltre, la CTP rimettente sottolinea che, a differenza di quanto affermato dalla sentenza di questa Corte n. 225 del 2005, la giurisprudenza di legittimità non consente una deduzione automatica dei costi presuntivamente sostenuti per conseguire i ricavi ottenuti grazie alle somme prelevate senza giustificazione, anche qualora l’amministrazione finanziaria abbia operato un accertamento analitico-contabile. Vi è dunque che, nella prospettiva del giudice a quo, la presunzione contestata opera nel senso che mediante il prelievo viene effettuato un acquisto di fattori produttivi che genera, nel medesimo anno di imposta, un ricavo pari al prelevamento.

    In subordine, la rimettente deduce l’irragionevolezza intrinseca della presunzione di equiparazione dei prelevamenti su conto corrente ai ricavi, laddove opera anche rispetto agli imprenditori assoggettati a contabilità semplificata, poiché tale regime contabile determina, come sottolineato da questa Corte nella sentenza n. 228 del 2014 rispetto ai professionisti, una sorta di «promiscuità» contabile, con conseguente difficoltà di distinguere tra spese personali e spese professionali.

  3. – In data 2 novembre 2021, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo la manifesta infondatezza delle questioni.

    In particolare, la difesa dello Stato sottolinea che questa Corte, già con la sentenza n. 225 del 2005, ha escluso la violazione, da parte della norma censurata, sia dell’art. 53 Cost., poiché si tratta di una presunzione iuris tantum superabile con l’indicazione del beneficiario dei prelievi, sia dell’art. 3 Cost., in quanto non è manifestamente arbitrario ipotizzare che detti prelievi ingiustificati siano destinati all’attività di impresa e, pertanto, costituiscano redditi imponibili, una volta detratti i relativi costi. Evidenzia, poi, che, a differenza di quanto dedotto dal giudice a quo, la giurisprudenza di legittimità consente al contribuente di superare il contestato meccanismo anche mediante prove presuntive relative all’utilizzo delle somme prelevate per spese familiari o comunque compiute al di fuori dell’esercizio dell’impresa.

    Per altro verso, l’Avvocatura generale sottolinea che la norma censurata – funzionale a scoraggiare l’utilizzo del contante, in un sistema nel quale l’evasione raggiunge circa il 20 per cento del prodotto interno lordo – non viola il principio di capacità contributiva atteso che è ragionevole presumere, a fronte di prelievi non giustificati, che si tratti di costi cosiddetti “in nero”, produttivi cioè di ricavi non contabilizzati e che al contribuente non è precluso, sempre a differenza di quanto assunto dal giudice rimettente, dedurre i costi sostenuti per la produzione dei ricavi, purché ne fornisca specifica prova, in forza della regola generale espressa dall’art. 109, comma 4, lettera b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi).

    Il Presidente del Consiglio dei ministri rileva, inoltre, quanto alle questioni sollevate in via gradata, che non potrebbe assumersi un’irragionevolezza della presunzione in esame neppure rispetto ai piccoli imprenditori a seguito della modifica della norma censurata – modifica cui non fa riferimento il giudice rimettente – ad opera del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per il finanziamento di esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2016, n. 225, che ha introdotto limitazioni alla presunzione stessa, nel senso che essa si applica a prelevamenti superiori a 1.000,00 euro giornalieri e comunque entro i limiti di 5.000,00 euro mensili proprio avendo riguardo a tali situazioni nelle quali è più complesso distinguere tra prelievi...

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