Sentenza nº 258 da Constitutional Court (Italy), 20 Dicembre 2022

RelatoreMaria Rosaria San Giorgio
Data di Resoluzione20 Dicembre 2022
EmittenteConstitutional Court (Italy)

Sentenza n. 258 del 2022

SENTENZA N. 258

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Daria de PRETIS

Giudici: Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 30, commi primo, lettera b), e secondo, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), promosso dalla Corte d’appello di Roma, quarta sezione lavoro, nel procedimento vertente tra A. P. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 27 aprile 2021, iscritta al n. 118 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 novembre 2022 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;

uditi l’avvocato Piera Messina per l’INPS e l’avvocato dello Stato Giammario Rocchitta per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 22 novembre 2022.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza iscritta al n. 118 del registro ordinanze 2021, la Corte d’appello di Roma, quarta sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30, commi primo, lettera b), e secondo, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), «nella parte in cui sia applicabile all’errore di calcolo determinato da fatto imputabile all’amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente».

    Il Collegio rimettente riferisce di dover decidere, in grado di appello, sulla domanda azionata da A. P., già professore associato presso l’Università «La Sapienza» di Roma, che ha contestato una pretesa restitutoria avanzata, nei suoi confronti, dall’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS). Cessato dal servizio in data 1° novembre 2011, A. P. aveva ottenuto dall’INPS la liquidazione del trattamento di fine servizio con provvedimenti dell’8 febbraio e del 1° marzo 2012. Successivamente, con lettera del 12 aprile 2017, l’INPS gli aveva tuttavia comunicato di aver proceduto alla riliquidazione del trattamento, con conguaglio a suo debito pari ad euro 75.509,64, in quanto l’Università (come da missive in data 1° e 10 marzo 2017) aveva dovuto rideterminare i compensi erogati in costanza del rapporto di lavoro.

    Nel contestare la pretesa restitutoria dell’INPS, A. P. aveva sostenuto, preliminarmente, l’intervenuta decadenza del potere di modifica, per effetto della scadenza del termine annuale previsto dall’art. 30, secondo comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973. In primo grado, tuttavia, il Tribunale di Roma aveva rigettato tale «eccezione», sostenendo che il dies a quo di quel termine si sarebbe dovuto individuare, per il caso in esame, nel giorno in cui l’amministrazione di appartenenza aveva comunicato all’INPS i nuovi dati retributivi rettificati. Con il primo motivo di appello, A. P. si è doluto pertanto dell’errata individuazione del dies a quo, sostenendo che il termine annuale decorre (come precisa il dettato normativo) «dalla data di emanazione» del provvedimento errato.

    Richiamato il contenuto delle norme sottoposte a censura (le quali, precisa il rimettente, avrebbero «valore di legge ordinaria, in quanto emanat[e] ai sensi dell’art. 6 della L. n. 775/1970, che delegò il Governo ad emanare testi unici […] espressamente “aventi valore di leggi ordinarie”»), il giudice a quo ricostruisce il panorama normativo di riferimento, osservando che, ai sensi dell’art. 26, secondo comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973, ai fini della liquidazione dell’indennità di buonuscita, l’amministrazione di appartenenza del dipendente trasmette all’ente previdenziale un «progetto di liquidazione». Nel caso in cui «vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo di riscatto o nel calcolo dell’indennità di buonuscita o dell’assegno vitalizio» (così l’art. 30, primo comma, lettera b, del medesimo d.P.R.), l’art. 30, secondo comma, stabilisce che «il provvedimento è revocato, modificato o rettificato non oltre il termine di un anno dalla data di emanazione».

    Osserva il rimettente che il terzo comma dell’art. 30 individua, poi, un diverso termine di decadenza (pari a «sessanta giorni dalla ricevuta comunicazione dell’amministrazione statale») per l’ipotesi prevista dall’art. 26, sesto comma, del medesimo d.P.R., che si riferisce alle «[e]ventuali modifiche relative a provvedimenti dell’amministrazione statale, che comportino variazioni concernenti l’indennità di buonuscita già erogata» (modifiche che, precisa la norma, «saranno comunicate all’amministrazione del Fondo di previdenza, ai fini del pagamento di supplementi dell’indennità predetta ovvero del recupero, mediante trattenute sul trattamento di quiescenza, delle somme non dovute»). La fattispecie così descritta dall’art. 26, sesto comma, tuttavia, non corrisponderebbe a quella oggetto del giudizio a quo, perché essa – a giudizio del Collegio rimettente – si riferirebbe «a modifiche dei provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza adottati come “datore di lavoro”», destinati cioè ad incidere «sul rapporto di lavoro (ad esempio una ricostruzione di carriera)», dai quali derivi una diversa quantificazione dell’indennità di buonuscita. Tale interpretazione sarebbe suffragata dal verbo «comportino» utilizzato dalla disposizione in esame.

    Nel caso di specie, osserva il rimettente, l’errore nella liquidazione «è dipeso proprio da un errore commesso a suo tempo dall’Università – a rapporto di lavoro del P. ormai estinto – nell’elaborazione del “progetto di liquidazione” del t.f.s.». Esso è derivato, si precisa, da un’errata quantificazione dell’indennità di perequazione, di cui all’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali). In altri termini, il provvedimento correttivo adottato dall’Università costituirebbe «un diverso “progetto di liquidazione”», al quale tornerebbe ad essere applicabile il regime previsto dai primi due commi dell’art. 30 del d.P.R. n. 1032 del 1973, con conseguente termine annuale di decadenza.

    Né, secondo il rimettente, potrebbe accedersi alla tesi, «sostenuta da una parte della giurisprudenza capitolina di merito», secondo cui il potere di rettifica dell’INPS, di cui al predetto art. 30, sarebbe limitato ai soli “errori di fatto”, con esclusione di quelli “di diritto” (i quali resterebbero, pertanto, imputabili all’INPS senza possibilità di rimedio). Ciò in quanto la «nozione omnicomprensiva» dell’art. 30 abbraccerebbe, secondo il rimettente, tutti gli errori «“a valle”», indipendentemente dalle ragioni «“a monte”» (di fatto o di diritto) che possano averli determinati.

    Ne deriverebbe la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, «in quanto dalla [loro] soluzione dipende l’esito dell’appello e, in particolare, del suo primo motivo, avente carattere preliminare e assorbente».

    Così ricostruita «l’astratta applicabilità» del citato art. 30, il giudice a quo passa a esporre i dubbi di illegittimità costituzionale che fonderebbero il requisito della non manifesta infondatezza.

    La prima censura involge l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto al lavoro subordinato privato e alle «altre tipologie previste per il pubblico impiego». Per le fattispecie così richiamate, assume il rimettente, troverebbe applicazione la disciplina dell’indebito oggettivo (art...

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