Sentenza nº 109 da Constitutional Court (Italy), 11 Maggio 2017

RelatoreNicolò Zanon
Data di Resoluzione11 Maggio 2017
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 109

ANNO 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo GROSSI Presidente

- Giorgio LATTANZI Giudice

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Nicolò ZANON ”

- Franco MODUGNO ”

- Augusto Antonio BARBERA ”

- Giulio PROSPERETTI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promosso dal Tribunale ordinario di Varese, con ordinanza del 9 febbraio 2016, iscritta al n. 90 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2017 il Giudice relatore Nicolò Zanon.

Ritenuto in fatto

  1. – Il Tribunale ordinario di Varese, con ordinanza del 9 febbraio 2016 (r.o. n. 90 del 2016), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67).

  2. – Il rimettente riferisce che, nel procedimento penale sottoposto alla sua cognizione, E.F. risulta imputata per «il reato di cui agli articoli 81 cpv. c. p. e 2 comma 1 bis» del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638, poiché, in qualità di legale rappresentante della “F.E. Pizzeria La Svolta” di Somma Lombardo, «con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, ometteva di effettuare nei termini di legge il versamento della somma complessiva di € 177,00 relativa al periodo compreso tra il mese di agosto 2008 e febbraio 2009, trattenuta a titolo di ritenute previdenziali ed assistenziali sulla retribuzione dei dipendenti dell’azienda».

    Riferisce altresì che il delitto contestato all’imputata, nelle sole ipotesi in cui l’importo omesso non sia superiore ad euro 10.000 per ogni annualità, è stato oggetto di depenalizzazione e contestuale trasformazione in illecito amministrativo, ai sensi dell’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 (entrato in vigore in data 6 febbraio 2016). Le relative condotte sono ora punite con l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000.

    Il giudice a quo evidenzia che l’art. 8 del d.lgs. n. 8 del 2016 prevede l’applicabilità delle sanzioni amministrative «anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili» (comma 1) e che «[a]i fatti commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale» (comma 3). Ricorda, altresì, che l’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016 impone al giudice penale, nei casi di cui al precedente art. 8, comma 1, la trasmissione (entro novanta giorni dall’entrata in vigore del decreto), all’autorità amministrativa competente all’irrogazione della sanzione amministrativa, degli atti relativi ai procedimenti penali riguardanti reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa.

    Tanto premesso, solleva questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui prevede l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 3, comma 6, del medesimo d.lgs. n. 8 del 2016, ai fatti di cui all’art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983, anche se commessi prima dell’entrata in vigore del decreto che ne ha disposto la trasformazione in illeciti amministrativi; dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui prevede che, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore di tale decreto, la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile non possa essere superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato; dell’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui impone al giudice penale la trasmissione all’autorità amministrativa, competente ad applicare la sanzione amministrativa pecuniaria, degli atti relativi ai procedimenti penali riguardanti reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa.

    Tutte le questioni sono sollevate per contrasto con i principi di legalità e irretroattività della pena, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., con il principio di colpevolezza, di cui all’art. 27 Cost., e con il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.

    2.1.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo ricorda che l’art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 8 del 2016, sanzionava con la pena della reclusione sino a tre anni e della multa sino ad euro 1.032,91 il datore di lavoro che ometteva di versare le ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.

    Con il citato art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, il legislatore ha introdotto una soglia di punibilità per il delitto in questione, che costituisce tuttora reato solo laddove l’importo omesso – per singole annualità – risulti superiore ad euro 10.000 (nel qual caso è ancora prevista la pena della reclusione fino a tre anni e della multa sino ad euro 1.032), mentre è stato trasformato in illecito amministrativo nelle ipotesi in cui l’importo omesso non superi il limite-soglia indicato, prevedendosi l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 50.000, anche per le condotte tenute anteriormente alla depenalizzazione.

    Ciò posto, il rimettente sottolinea, come premessa del suo ragionamento, che il principio di irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. trova applicazione esclusivamente per le norme penali e le pene da queste contemplate, per le quali risulta dunque inderogabile, mentre per le sanzioni amministrative l’operatività del principio è assicurata dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che può ben essere derogato da una legge ordinaria posteriore che preveda espressamente l’applicazione retroattiva di una sanzione amministrativa.

    Ricorda, tuttavia, che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: Corte EDU), le nozioni di «sanzione penale» e di «sanzione amministrativa» non possono essere desunte, semplicemente, dal nomen iuris utilizzato dal legislatore, né dall’autorità chiamata ad applicarla, ma devono, al contrario, essere ricavate in concreto, tenuto conto delle finalità e della portata del precetto sanzionatorio di volta in volta contemplato.

    Il giudice a quo evidenzia che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU – di cui vengono diffusamente richiamate le pronunce concernenti la legittimità «del sistema sanzionatorio italiano del cosiddetto “doppio binario”», in relazione agli illeciti fiscali e tributari (è, in particolare, ampiamente illustrata la sentenza del 4 marzo 2014 nella causa Grande Stevens e altri contro Italia) – l’individuazione di una sanzione come «amministrativa» o «penale» non può dipendere unicamente dalla qualificazione ad essa attribuita dal legislatore né dalla natura dell’organo chiamato ad applicarla, dovendosi, al contrario, avere riguardo ad una serie di indici presuntivi, in presenza dei quali la sanzione – pur se formalmente qualificata come «amministrativa» – assume, a tutti gli effetti, la natura, lo scopo e le funzioni di una vera e propria pena: tra tali indici, il rimettente ricorda la «rilevante severità» della sanzione, «l’importo elevato in concreto inflitto e in astratto comminabile», la presenza di sanzioni accessorie collegate, e le ripercussioni complessive sugli interessi del condannato. In presenza di tali indici, le sanzioni amministrative, proprio per l’elevata afflittività nei confronti del condannato, rivestirebbero uno scopo chiaramente repressivo e preventivo, che si affianca a quello riparatorio dei pregiudizi di natura finanziaria cagionati dalla condotta, potendosi considerare, così, sostanzialmente di natura penale.

    Secondo il giudice a quo, analoghe argomentazioni sosterrebbero la qualificazione in termini di pena della sanzione amministrativa attualmente prevista per le violazioni di cui all’art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983, laddove l’omesso versamento non superi il limite-soglia di euro 10.000.

    A tal proposito, evidenzia il rimettente come la sanzione introdotta per le violazioni «sotto-soglia» contempli il pagamento di una somma ricompresa tra euro 10.000 ed euro 50.000, con un minimo edittale, dunque, superiore al massimo della pena pecuniaria prevista per le violazioni superiori alla soglia di punibilità costituenti ancora reato (pari alla multa fino ad euro 1.032). Anche in tal caso, ricorrerebbero i medesimi indici che la Corte EDU ha elaborato per attribuire alle sanzioni «nominalmente» amministrative la natura sostanziale di sanzioni penali.

    In particolare, il giudice a quo rileva che «il complesso di norme di cui...

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