Sentenza nº 83 da Constitutional Court (Italy), 13 Aprile 2017

RelatoreGiorgio Lattanzi
Data di Resoluzione13 Aprile 2017
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 83

ANNO 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo GROSSI Presidente

- Alessandro CRISCUOLO ”

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Franco MODUGNO ”

- Nicolò ZANON ”

- Augusto Antonio BARBERA ”

- Giulio PROSPERETTI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 117, promosso dal Magistrato di sorveglianza di Padova sull’istanza presentata da E. H., con ordinanza del 2 maggio 2016, iscritta al n. 125 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visti l’atto di costituzione di E. H., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 7 marzo 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;

uditi l’avvocato Giovanni Gentilini per E. H. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 2 maggio 2016 (r.o. n. 125 del 2016), il Magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come introdotto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 117, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3, 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

    Il Magistrato di sorveglianza deve decidere su una domanda di risarcimento proposta, ai sensi dell’art. 35-ter impugnato, da una persona soggetta a misura di sicurezza detentiva, che deduce di essere stata internata in condizioni disumane, e tali da comportare la violazione dell’art. 3 della CEDU.

    Il giudice rimettente ritiene provata la violazione per un periodo di 132 giorni, durante il quale il ricorrente, in applicazione della misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione a una casa di lavoro, è stato internato in una “cella” con uno spazio inferiore ai tre metri quadrati per persona.

    L’interpretazione letterale dell’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975 impedirebbe, secondo il giudice rimettente, di accogliere la domanda risarcitoria, posto che la disposizione si riferisce esclusivamente al detenuto, e non anche all’internato, salvo che nella rubrica, che li menziona invece entrambi. Insomma la disposizione sarebbe applicabile solo se la violazione si verifica durante l’espiazione della pena detentiva, e non anche se si verifica durante l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva.

    Ciò determinerebbe anzitutto la lesione dell’art. 3 Cost., a causa della disparità di trattamento tra detenuto e internato. Un’analoga diseguaglianza esisterebbe poi tra gli internati che avevano già un ricorso pendente davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo e gli altri, perché l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 92 del 2014, al fine di prevenire la pronuncia del giudice europeo, permette ai primi, e solo a questi, di esperire il rimedio introdotto dall’art. 35-ter.

    Parimenti leso sarebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, 6 e 13 della CEDU, perché l’assenza di rimedi contro la detenzione in condizioni disumane comprometterebbe l’equità del processo, da garantire anche in fase esecutiva, e l’effettività dei ricorsi interni, e non reprimerebbe le violazioni del divieto di tortura.

    Il rimettente deduce inoltre la lesione dell’art. 25, primo comma, Cost., perché l’internato, non disponendo di rimedi giudiziali, sarebbe privato del giudice naturale costituito dal magistrato di sorveglianza.

    Infine, insieme a tali parametri, sarebbe violato anche l’art. 24 Cost., sia perché l’internato non può agire in giudizio, sia perché, quand’anche potesse agire, l’art. 35-ter non gli attribuirebbe una tutela adeguata. Infatti non sarebbe possibile né ridurre la durata della misura di sicurezza in corso di esecuzione, come è previsto per la pena detentiva (posto che tale misura non avrebbe un termine massimo di durata e potrebbe essere prorogata senza limiti), né riconoscere un ristoro economico, perché questo sarebbe subordinato dalla norma impugnata alla circostanza che la pena ancora da scontare non sia così lunga da permettere di sottrarvi l’intero periodo che il detenuto ha diritto di non espiare a ristoro del danno patito. Ma anche in tale caso sarebbe di ostacolo la mancanza di un termine massimo di durata della misura di sicurezza.

    L’art. 35-ter è perciò denunciato, sia nella parte in cui non ammette anche l’internato a esperire il rimedio in questione, sia nella parte in cui, ove il rimedio dovesse ritenersi concesso, non prevede «la riduzione della durata della misura di sicurezza detentiva e/o il ristoro pecuniario a titolo di rimedio...

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