Sentenza nº 141 da Constitutional Court (Italy), 16 Giugno 2016

RelatoreNicolò Zanon
Data di Resoluzione16 Giugno 2016
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 141

ANNO 2016

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo GROSSI Presidente

- Alessandro CRISCUOLO Giudice

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Nicolò ZANON ”

- Franco MODUGNO ”

- Augusto Antonio BARBERA ”

- Giulio PROSPERETTI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 398, 414, 555, 556 e 557, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2015), promossi dalle Regioni Veneto e Lombardia con ricorsi notificati, rispettivamente, il 24-25 febbraio 2015 e il 26 febbraio – 3 marzo 2015, depositati in cancelleria, rispettivamente, il 4 e il 5 marzo 2015 ed iscritti ai nn. 31 e 33 del registro ricorsi 2015.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 3 maggio 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi gli avvocati Luca Antonini e Luigi Manzi per la Regione Veneto, Francesco Saverio Marini per la Regione Lombardia, e l’avvocato dello Stato Stefano Varone per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. — La Regione Veneto, con ricorso notificato il 25 febbraio 2015 presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e il 24 febbraio 2015 presso l’Avvocatura generale dello Stato, poi depositato il 4 marzo 2015 (reg. ric. n. 31 del 2015), ha impugnato, tra gli altri, l’art. 1, commi 398, lettere a), b) e c), 414 e 556, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2015).

    1.1.— L’art. 1, comma 398, lettere a) e b), in particolare, è censurato nelle parti in cui, modificando l’art. 46, comma 6, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89: sostituisce le parole «[l]e regioni a statuto ordinario» alle parole «le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano»; estende di un anno (al 2018) l’orizzonte temporale del contributo alla finanza pubblica ivi previsto; sopprime le parole «tenendo anche conto del rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva 2011/7/UE, nonché dell’incidenza degli acquisti centralizzati,»; espunge, dal secondo periodo, la parola «eventualmente».

    All’esito di tali modifiche, l’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, stabilisce le modalità di riparto del contributo alla finanza pubblica delle Regioni, di cui fissa gli importi (pari a 500 milioni di euro per il 2014 ed a 750 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2018), rinviando ad un’intesa da sancire in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano per l’individuazione degli ambiti di spesa e degli importi da proporre in sede di autocoordinamento dalle Regioni, e da raggiungere entro il 31 maggio 2014, con riferimento all’anno 2014, ed entro il 30 settembre 2014 (per effetto della modifica già introdotta dall’art. 42, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, recante «Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164) con riferimento agli anni 2015 e seguenti. In mancanza d’intesa, si prevede che i richiamati importi siano assegnati, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (da adottarsi, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, entro 20 giorni dalla scadenza dei predetti termini), ad ambiti di spesa attribuiti alle singole Regioni, in base al PIL regionale ed alla popolazione residente, con rideterminazione dei livelli di finanziamento degli ambiti individuati e delle modalità di acquisizione delle risorse da parte dello Stato.

    Secondo la ricorrente, le modifiche alla disposizione ricordata, apportate dalla legge n. 190 del 2014, violerebbero gli artt. 3, 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 della Costituzione, oltre al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.

    In primo luogo, sarebbe leso il principio di leale collaborazione, in quanto l’originaria previsione dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, sarebbe diventata «il contenitore di una nuova manovra (realizzata includendo un’altra annualità di taglio al periodo originariamente previsto)», rispetto alla quale sarebbe però «preclusa completamente la possibilità dell’intesa, perché il termine previsto dal comma 6 dell’art. 46 (peraltro appunto arbitrariamente anticipato) è appunto da tempo decorso (31 settembre 2014)».

    In altre parole, l’intervento legislativo impugnato inserirebbe nuove misure finanziarie in un testo normativo recante ancora la previsione di un’intesa, i termini per la cui conclusione sono tuttavia da tempo spirati: in questo modo, il legislatore utilizzerebbe il riferimento ad un’intesa, divenuta irrealizzabile, per imporre nuovi risparmi di spesa, riducendo la leale collaborazione a mera apparenza.

    Le disposizioni censurate, in secondo luogo, eluderebbero i principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale in relazione alla funzione di coordinamento della finanza pubblica. Sostiene, in particolare, la ricorrente che nelle sentenze n. 193 del 2012 e n. 79 del 2014 la Corte costituzionale avrebbe affermato l’obbligatorietà di un termine finale di operatività delle misure finanziarie restrittive riguardanti Regioni, Province e Comuni, e che, in relazione alle manovre di contenimento della spesa pubblica a carico delle Regioni, tale limite temporale massimo sarebbe stato fissato in un triennio. Risulterebbe perciò del tutto elusiva di questa giurisprudenza la tecnica normativa di fissare inizialmente un termine triennale ai «tagli», estendendolo poi, con successivi interventi normativi, ad annualità ulteriori, peraltro a intesa ormai «chiusa». In tal modo verrebbe vanificato il limite temporale, che costituirebbe la condizione di legittimità costituzionale dell’intervento statale di coordinamento della finanza pubblica. Da ciò, per la ricorrente, la violazione sia dell’art. 117, terzo comma, Cost., sia dell’art. 119 Cost., sull’autonomia di spesa della Regione.

    Infine, le disposizioni impugnate, aggiungendo un’ulteriore annualità a quanto originariamente previsto dagli artt. 8 e 46 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, perpetuerebbero l’illegittimità costituzionale del meccanismo così congegnato, già censurato con il ricorso iscritto al n. 63 reg. ric. del 2014, con particolare riferimento al «carattere meramente lineare del taglio» imposto alle spese per acquisti di beni e servizi, in ogni settore e senza alcuna distinzione qualitativa, attraverso una misura dal carattere assolutamente generico, come tale idonea a ricomprendere sia la cosiddetta «spesa cattiva» sia la cosiddetta «spesa buona» (identificata dalla ricorrente, quale esempio, nella spesa in conto capitale, che dal 2010 al 2013 in Italia, per l’effetto di manovre di taglio lineare analoghe a quella in oggetto, si sarebbe ridotta di circa 20 miliardi di euro). Tale ulteriore riduzione sarebbe potenzialmente idonea ad interferire in ambiti inerenti a fondamentali diritti civili e sociali (ad esempio in materia di assistenza sociale, assegnata costituzionalmente alla Regione), nei quali lo Stato dovrebbe invece svolgere una funzione di coordinamento, attraverso la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, al fine di evitare la messa a repentaglio dell’uniforme livello dei servizi da garantire su tutto il territorio nazionale (vengono richiamate le sentenze n. 320 del 2004 e n. 273 del 2013 della Corte costituzionale). Non essendo stati previamente determinati i livelli essenziali nelle materie (quale, ad esempio, l’assistenza sociale) interessate dalla misura di restrizione finanziaria, lo Stato non avrebbe effettuato alcuna verifica circa la sostenibilità della riduzione di spesa rispetto alla erogazione dei relativi servizi, anche in considerazione della mancanza di alcun riferimento a livelli standard di spesa efficiente, considerato che tale disciplina si applica alla totalità delle Regioni, senza che abbiano rilievo i livelli di spesa storica (e della relativa appropriatezza) sostenuti dai singoli enti. Ne deriverebbe la penalizzazione di quelle «realtà regionali che hanno adottato da tempo misure di contenimento della spesa riducendola a livelli difficilmente ulteriormente comprimibili senza un vulnus al sistema dei servizi sociali».

    Secondo la ricorrente, le disposizioni impugnate travalicherebbero la funzione del «coordinamento» della finanza pubblica, concretizzandosi in misure di indiscriminato «contenimento» prive, tuttavia, degli indispensabili elementi di razionalità, di efficacia e di sostenibilità. Sicché, «la mancata individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (la cui determinazione era stata prevista in Costituzione per garantirne una tutela a livello centrale), è quindi paradossalmente divenuta un’occasione per introdurre misure di contenimento finanziario in grado di compromettere quegli stessi livelli».

    Per la ricorrente, in definitiva, sotto questo profilo sarebbero violati: il principio di ragionevolezza di cui allart. 3 Cost., «con una diretta ricaduta sullautonomia regionale che risulta limitata nella propria capacità organizzativa e finanziaria»; lart. 117, secondo e terzo comma, Cost. essendo indebitamente travalicata la funzione di coordinamento della finanza pubblica; gli artt. 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., essendo...

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