Sentenza nº 303 da Constitutional Court (Italy), 11 Novembre 2011

RelatoreLuigi Mazzella
Data di Resoluzione11 Novembre 2011
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 303

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Alfonso QUARANTA Presidente

- Alfio FINOCCHIARO Giudice

- Franco GALLO “

- Luigi MAZZELLA “

- Gaetano SILVESTRI “

- Sabino CASSESE “

- Giuseppe TESAURO “

- Paolo Maria NAPOLITANO “

- Alessandro CRISCUOLO “

- Paolo GROSSI “

- Giorgio LATTANZI “

- Aldo CAROSI “

- Marta CARTABIA “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), promossi dalla Corte di cassazione con ordinanza del 28 gennaio 2011 e dal Tribunale di Trani con ordinanza del 20 dicembre 2010 iscritte ai nn. 62 e 86 del registro ordinanze 2011 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 16 e 21, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visti gli atti di costituzione di Poste Italiane s.p.a., di C. C. e di S. G., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 4 ottobre 2011 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

uditi gli avvocati Arturo Maresca e Roberto Pessi per Poste Italiane s.p.a., Sergio Vacirca e Vittorio Angiolini per C. C., Domenico Carpagnano e Vincenzo De Michele per S. G. e l’avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – La Corte di cassazione, con ordinanza del 28 gennaio 2011, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 della Costituzione, dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro). Tali disposizioni prevedono quanto segue: il comma 5, che nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro a risarcire il lavoratore in ragione di un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali); il comma 6, che, in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello, purché stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, i quali contemplino l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’àmbito di specifiche graduatorie, il limite massimo della suddetta indennità è ridotto alla metà; il comma 7, che tali previsioni trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della predetta legge.

    1.1. – Riferisce la Corte rimettente che, con ricorso al Tribunale di Pisa, il signor C. C. aveva affermato l’illegittimità del termine di durata apposto al contratto con cui la S.p.A. Poste Italiane lo aveva assunto al lavoro, nonché la conseguente conversione del negozio in contratto a tempo indeterminato, chiedendo che la società, avvalsasi del termine ed estromessolo dall’azienda, fosse condannata a riammetterlo in servizio ed a risarcirgli il danno da sospensione del rapporto di lavoro; che, rigettata la domanda in primo grado, la Corte d’appello di Firenze, in accoglimento del gravame del lavoratore, aveva accertato la sussistenza di un contratto a tempo indeterminato e condannato la società a riammetterlo in servizio ed a risarcirgli il danno, pari alle retribuzioni con accessori, a partire dal 26 settembre 2002, ossia dal giorno in cui egli aveva offerto le proprie prestazioni; che contro detta sentenza la società aveva proposto ricorso per cassazione. Entrata nelle more del giudizio in vigore la legge n. 183 del 2010, la Corte rimettente opina di dover applicare la nuova disciplina in materia di contratto a tempo determinato delineata dalle disposizioni impugnate ivi contenute, in quanto ritenute riferibili a tutti i giudizi in corso, di qualunque grado. Sicché, la sentenza impugnata dovrebbe a suo avviso essere cassata con rinvio, onde consentire al giudice di merito di calcolare l’indennità spettante in base alla novella, in misura certamente inferiore a quella dovuta ai sensi della normativa previgente, ossia dal 26 settembre 2002 fino alla riammissione al lavoro, nella specie – stando agli atti – non ancora avvenuta. Donde la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale dei commi 5 e 6 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010.

    1.2. – La Corte di cassazione ritiene, altresì, non manifestamente infondate le questioni di legittimità delle suddette norme. In primo luogo, per denunciato contrasto di esse con gli artt. 3, secondo comma, 4, 24 e 111 Cost., perché la previsione di un’indennità circoscritta ad alcune mensilità di retribuzione sarebbe irragionevolmente contenuta rispetto all’ammontare del danno sopportato dal prestatore di lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto, che aumenta con il decorso del tempo, assumendo dimensioni imprevedibili, in quanto pari almeno alle retribuzioni perdute dalla data dell’inutile offerta delle proprie prestazioni fino a quella, futura ed incerta, dell’effettiva riammissione in servizio. Con il risultato che la liquidazione eventualmente sproporzionata per difetto rispetto all’ammontare del danno sofferto dal lavoratore indurrebbe il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento tentando di prolungare il giudizio oppure sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma specifica. Con ciò vanificando il diritto del cittadino al lavoro ed arrecando grave nocumento all’effettività della tutela giurisdizionale, che esige l’esatta, per quanto materialmente possibile, corrispondenza tra la perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il rimedio ottenibile in sede giudiziale. Ancora in riferimento all’art. 4 Cost., atteso che la sproporzione fra la tenue indennità ed il danno, che aumenta con la permanenza del comportamento illecito del datore di lavoro, sembrerebbe contravvenire all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 ed allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato), come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria.

    1.3. – Con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, primo comma, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 5 agosto 1955, n. 848, la Corte rimettente deduce che le disposizioni censurate, dettate da motivi di opportunità economica, realizzerebbero un’intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, volta ad influire sulla decisione di una singola controversia o su un gruppo di esse, non giustificata da ragioni “imperative” di interesse generale, né da esigenze parificatrici in rapporti di lavoro pubblico, né dall’incerta interpretazione o da imperfezioni tecniche delle norme di diritto comune in tema di risarcimento del danno subìto dal lavoratore, come costantemente interpretate dalla giurisprudenza lavoristica.

  2. – Con memoria depositata il 3 maggio 2011 si è costituita la società Poste Italiane, ricorrente nel giudizio principale, chiedendo la dichiarazione di manifesta inammissibilità ovvero di non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione.

    2.1. – In punto d’inammissibilità, la parte privata evidenzia il difetto di rilevanza delle questioni in esame, in quanto poste in via puramente ipotetica ed in relazione a norme destinate a trovare applicazione solo nell’àmbito del giudizio rescissorio avanti alla competente Corte d’appello.

    2.2. – Nel merito, all’asserito contrasto delle norme censurate con i princìpi di ragionevolezza e di effettività del rimedio giurisdizionale, espressi negli artt. 3, secondo comma, 24 e 111 Cost., nonché con il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost., la predetta società obietta che il legislatore, in un ragionevole bilanciamento ex ante degli interessi delle parti, per un verso, ha incentrato la garanzia del contraente debole sulla conversione del rapporto, per altro verso, ha rimodulato la concorrente tutela risarcitoria secondo un criterio equilibrato e ragionevole, già sperimentato per il caso di tutela obbligatoria del posto di lavoro.

    Quanto all’asserita violazione dell’art. 117, primo comma Cost., la società Poste Italiane eccepisce, in primis, l’inammissibilità della questione, poiché non sollevata rispetto al comma 7 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, ed argomenta per la sua infondatezza in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 6 CEDU, che non vieta in assoluto qualunque ingerenza del legislatore, ma stigmatizza l’alterazione della “parità delle armi” nei giudizi in corso solo quando lo Stato utilizzi il potere legislativo per volgere a suo favore l’esito di una controversia di cui esso sia parte. Mentre la riforma in oggetto sarebbe di carattere generale, e dunque non già diretta ad interferire sulla decisione di specifiche controversie, ma a parificare il trattamento di situazioni eguali a prescindere dalla data di introduzione del giudizio.

  3. – Con...

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