Troppo rumore per nulla: la Cassazione estende il principio del 'minore sacrificio necessario' al reato di violenza sessuale di gruppo ex art. 609 octies c.p.

AutoreCinque Carlo
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presenza di principi “in toto” applicabili anche alla ipotesi di reato ex art. 609 octies c.p., reato che presenta caratteristiche essenziali non difformi da quelle che la Corte costituzionale ha individuato per i reati sessuali (art. 609 bis e art. 609 quater c.p.) sottoposti al suo giudizio in relazione alla disciplina ex art. 275, terzo comma, c.p.p..

Deve, dunque, concludersi che nel caso in esame l’unica interpretazione compatibile coi principi fissati dalla sentenza n. 265 del 2010, citata, è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla

custodia carceraria anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all’art. 609 octies c.p.p..

Sotto tale profilo, la motivazione dell’ordinanza impugnata è incorsa nel vizio di errata applicazione della legge.

Sulla base delle considerazioni che precedono la Corte ritiene che i vizi di motivazione sopra indicati impongano di annullare l’ordinanza impugnata, con rinvio degli atti al Tribunale di Roma per un nuovo esame che terrà conto dei principi fissati in questa sede. (Omissis)

troppo rumore per nuLLa: La cassazione estende
iL principio deL “minore sacrificio necessario” aL reato di vioLenza sessuaLe di gruppo eX art. 609 octies c.p.

di Carlo Cinque

SOMMARIO
1. Introduzione. 2. Il c.d. “vuoto dei fini” e l’apparente anti-nomia tra l’art. 13 secondo comma Cost. e l’art. 27 secondo comma Cost. Fino a che punto può spingersi il legislatore?.
3. Il legislatore non rispetta il principio di ragionevolezza ed estende il regime speciale ad altre tipologie di reati. La scure della Corte Costituzionale e l’intervento costituzionalmente obbligato di Cass. n. 4377/12.

1. Introduzione

Con la sentenza in rassegna (1), la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha esteso, al reato di violenza sessuale di gruppo, i principi già enunciati a suo tempo dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 265 del 21 luglio 2010.

Come noto, nella suddetta pronuncia, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 275 comma 3 c.p.p. nella parte in cui, sussistendo le esigenze cautelari previste dal codice di rito, prevede che l’unica misura cautelare adeguata, per i reati di cui agli artt. 600 bis primo comma, 609 bis (violenza sessuale) e 609 quater c.p. (atti sessuali con minorenne), sia la custodia cautelare in carcere.

La norma de qua è stata modificata più volte dal legislatore nel corso del tempo (decreto-legge 9 settembre 1991
n. 292, convertito in legge 8 novembre 1991, n. 356; art. 5 legge n. 8 agosto 1995 n. 332; art. 2 decreto-legge 23 feb-

braio 2009 n. 11 convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009 n. 38) il quale, per alcune tipologie di reato, ha introdotto un sistema cautelare a doppio binario: da un lato la disciplina tradizionale che subordina l’emanazione del provvedimento cautelare all’accertamento della sussistenza delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p. [id est: a) pericolo di inquinamento probatorio; b) pericolo di fuga;
c) pericolo di reiterazione del reato della stessa specie o dei reati indicati nella lett. c) dell’art. 274 c.p.p.] e fissa i principi guida della adeguatezza e della proporzionalità
(2) per condurre per mano il giudice nella scelta della misura cautelare da adottare nel caso concreto; dall’altro la disciplina speciale che prevede una doppia presunzione: una iuris tantum relativa alla sussistenza delle esigenze cautelari e, quindi, vincibile mediante prova contraria; l’altra iuris et de iure avente ad oggetto il principio di adeguatezza nella convinzione che, per i reati ivi previsti (associazione di tipo mafioso; violenza sessuale semplice e di gruppo e atti sessuali con minorenne; pornografia minorile; prostituzione minorile; omicidio volontario), l’unica misura adeguata a garantire il rispetto delle esigenze cautelari fosse la custodia cautelare in carcere.

Per questa tipologia di reati, quindi, una volta non dimostrata da parte della persona sottoposta alle indagini l’insussistenza di esigenze cautelari o comunque non risultino elementi che escludano la sussistenza di esigenze cautelari, il giudice è obbligato a disporre la custodia cautelare in carcere, sempreché ovviamente sussistano i gravi indizi di colpevolezza.

Ne deriva una sorta di stravolgimento rispetto alla disciplina classica delle misure cautelari per almeno un triplice ordine di ragioni: in primo luogo si inverte l’onere della prova che è a carico dell’indagato essendo egli tenuto a dimostrare l’insussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., con conseguenti dubbi di legittimità costituzionale della norma in relazione alla presunzione d’innocenza ex art. 27 comma 2 Cost. (3); in secondo luogo si sottrae al giudice la possibilità di scegliere, tra il ventaglio delle misure cautelari previste dalla legge, quella maggiormente confacente alla tutela delle esigenze cautelari presenti nel caso di specie; in terzo luogo si elimina l’obbligo di motivazione della scelta della custodia in

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carcere che non è più l’extrema ratio in caso di inadeguatezza delle altre misure coercitive, bensì la regola.

Fatte queste premesse, occorre chiedersi fino a che punto il legislatore possa creare sistemi alternativi al normale regime cautelare disciplinato dal libro quarto del codice di procedura penale e perché il sistema del doppio binario è stato recentemente scardinato dalla Corte Costituzionale (v. in proposito sent. n. 164/2011 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 275 comma 3 c.p.p. nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 del codice penale (omicidio volontario), è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure).

2. Il c.d. “vuoto dei fini” (4) e l’apparente antinomia tra l’art. 13 secondo comma Cost. e l’art. 27 secondo comma Cost. Fino a che punto può spingersi il legislatore?

L’art. 13 Cost., nello stabilire l’inviolabilità della libertà personale, testualmente dispone al secondo comma: “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, … (omissis) …, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.

La norma pone, quindi, una doppia riserva di legge e di giurisdizione nell’ambito della disciplina delle misure cautelari, ma nulla dice circa i fini che la legge deve perseguire nel limitare la libertà personale dell’individuo. Mentre è chiaro che la pena definitiva deve assolvere a fini rieducativi e che l’imputato è presunto innocente fino alla condanna definitiva; appare chiaro altresì che le misure cautelari devono adempiere ad altri scopi...

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