Il diritto all'uso delle tecnologie nei "rapporti" con la pubblica amministrazione: luci ed ombre

AutoreMarina Pietrangelo
CaricaL'autrice è titolare di un assegno di ricerca presso l'Istituto di Teoria e Tecniche dell'Informazione Giuridica del CNR
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@1. Premessa

L'art. 3 del Codice, rubricato Diritto all'uso delle tecnologie, è stato salutato come fortemente innovativo, perché riconoscerebbe per la prima volta "nuovi diritti", primo fra tutti un nuovo "diritto all'uso delle tecnologie"1.

Lo stesso Presidente della Repubblica, in un messaggio di saluto inviato il 9 febbraio scorso al Ministro per l'innovazione in occasione della presentazione pubblica del Codice, ha affermato: "Il Codice dell'Amministrazione Digitale, cornice normativa del processo in atto, riconosce una nuova categoria di diritti, garantisce una partecipazione più consapevole del cittadino alla vita democratica". Affermazione questa accompagnata, però, da un monito preciso: "A questi «nuovi diritti» devono corrispondere procedure e comportamenti della Pubblica Amministrazione finalizzati alla razionalizzazione dei processi e al contenimento della spesa pubblica con il sostegno di una classe dirigentePage 74 responsabile e orientata al risultato"2. Ho voluto principiare ricordando le autorevoli parole del Presidente Ciampi perché esse ben introducono gli aspetti sui quali intendo soffermarmi oggi, ovvero la "presunta" portata innovativa dei diritti riconosciuti dal Codice e, secondariamente, il problema della loro effettività. E a ben vedere proprio i passi dell'intervento del Presidente sopra richiamati, per un verso, attribuiscono al Codice la paternità del riconoscimento legislativo dei nuovi diritti connessi all'impiego delle tecnologie; per altro, evidenziano con forza la necessità di conferire a tali diritti una reale effettività, senza la quale risulterebbe fortemente ridotta proprio la portata innovativa del disposto legislativo.

Prima poi di esaminare più da vicino il tenore dell'art. 3 del Codice ed alcune connesse disposizioni della Parte prima del decreto delegato, mi soffermerò, seppur con rapidi cenni, sul quadro giuridico attuale nel quale il diritto all'uso delle tecnologie viene ad inserirsi, ben consapevole che di tali complesse questioni altri si occuperanno più approfonditamente nella sessione di domani.

@2. La portata innovativa dell'art. 3 del Codice: un equivoco da chiarire

Innanzitutto vorrei chiarire l'equivoco evocato poc'anzi relativo all'assoluta novità della previsione contenuta nell'art. 3 del Codice, ricordando che nell'ordinamento interno un generale diritto all'uso delle tecnologie trova già riconoscimento nel primo comma dell'art. 1 della legge n. 4/20043, per il quale: "La Repubblica riconosce e tutela il diritto di ogni persona ad accedere a tutte le fonti di informazione e ai relativi servizi, ivi compresi quelli che si articolano attraverso gli strumenti informatici e telematici".

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Poiché tale legge, nota come "legge Stanca", riconosce e garantisce ai soggetti disabili in particolare il diritto di accedere agli strumenti informatici (cfr. art. 1, co. 2), sul più generale riconoscimento di tale diritto a qualunque persona si è quasi taciuto4. Nello stesso dibattito in Parlamento non si è fatto che un cenno all'importanza di una disposizione siffatta (cfr. intervento dell'on. Folena5), eppure essa è ben più significativa che non l'art. 3 del Codice, ed anzi la previsione dell'art. 3, a mio sommesso avviso, non pone problemi di compatibilita con il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione solo se letta alla luce di quanto già previsto dall'art. 1 della legge n. 4 citata. Ma di tale aspetto tratterò più diffusamente in seguito.

Ove poi si consideri che la legge Stanca sull'accessibilità, pur portando il nome del Ministro per l'innovazione, è il risultato della discussione congiunta di più iniziative legislative parlamentari, oltre che di un disegno di legge governativo, ed è stata approvata all'unanimità, viene da interrogarsi sulla ragione politica per la quale si è scelto, più o meno consapevolmente, di non approntare adeguate iniziative di comunicazione per rendere nota la previsione contenuta nel citato primo comma dell'art. 16.

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Si può supporre che si sia taciuto sulla portata della disposizione richiamata per rendere meno stringenti i vincoli che derivano necessariamente ai decisori pubblici dal riconoscimento in via legislativa di un diritto siffatto, primo fra tutti l'impegno a reperire risorse finanziarie congrue, tali da conferire sostanza alle politiche di fatto evocate dal diritto in parola (alfabetizzazione tecnologica diffusa; realizzazione di infrastnitture a larga banda anche in zone in cui gli operatori reputano antieconomico investire7; politica delle tariffe; sensibilizzazione sul ruolo della rete come moltiplicatore delle capacità sociali dei singoli; capillare diffusione di centri di accesso digitale; etc). Ma tale malevola supposizione è senz'altro da scartare, perché tende a rappresentare il legislatore come poco consapevole della reale portata delle leggi che approva e l'amministrazione pubblica come volutamente sfuggente all'applicazione della legge. Un quadro, questo, improponibile in teoria. Diciamo semmai che, seppure ben confezionato, il prodotto legislativo è rimasto sconosciuto ai più perché naufragato nel gran mare delle leggi, attribuendo così il deficit di conoscenza al ben noto fenomeno patologico dell'inflazione legislativa8. Ma questa seconda considerazione è, in verità, ancor più pessimistica dellaPage 77 precedente, perché starebbe a dire che l'eccesso di produzione legislativa, in generale, impedisce la conoscibilità anche di quelle nuove leggi, e vieppiù di singole disposizioni, che costituiscono sì un aumento della produzione legislativa, ma non sono certo ascrivibili al fenomeno dell'inflazione legislativa, perché giustificate da modificazioni sociali e da nuove esigenze tecnologiche.

Resta in ogni caso il rammarico per l'occasione perduta, ovvero per non aver assistito nelle aule parlamentari ad un ampio ed articolato dibattito su temi che oramai sono diventati stringenti anche nell'agenda politica nazionale. Né mi soffermo sul fatto che l'art. 3 del Codice, come anche le altre disposizioni contenute nella Prima parte rubricata Diritti e doveri dei cittadini e delle imprese, può sollevare dubbi di costituzionalità sotto il profilo della conformità ai princìpi e criteri della delega9, e costituisce in ogni caso, in ragione delle peculiarità della fonte "decreto delegato", il risultato di elaborazioni sottratte alla discussione parlamentare.

@3. Il diritto all'uso delle tecnologie tra elaborazioni sociali e diritto positivo: cenni di quadro

Così chiarito l'equivoco iniziale, risulta evidente come la portata innovativa della disposizione contenuta nella legge Stanca sia stata erroneamente ravvisata da molti nell'art. 3 del Codice, una novità sul piano normativo in ogni caso rilevante, che è venuta a colmare una lacuna oramai intollerabile nell'ordinamento interno, oltre che in quello comunitario, se è vero che oggi l'eliminazione delle barriere tecniche, economiche e giuridiche che impediscono l'accesso individuale alle tecnologie informatiche e telematiche rappresenta il presupposto per poter esercitare altri diritti fondamentali, primi fra tutti la libertà d'espressione e la libertà di accedere all'informazione, ai dati, e dunque di diffonderli. Si è parlato, a riguardo, di una "funzione ancillare" rispetto ai diritti fondamentali della disciplina dell'accesso ai nuovi strumenti10.

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Una lacuna nel diritto positivo evidenziata anche dal ritardo delle elaborazioni giuridiche sul tema specifico, specie se confrontate con la vasta ed illuminata letteratura sociologica, che da anni è giunta finanche a costruire una teoria del diritto dell'accesso telematico.

In definitiva, il diritto all'uso delle tecnologie di cui si va ragionando si ricollega a quella nuova forma di libertà personale nata dalla civiltà tecnologica, la libertà informatica come Vittorio Frosini la definì, non nella sua formulazione originaria11, ovvero come pretesa passiva, come diritto di controllare le informazioni sulla propria persona ed il loro trattamento (il diritto allo habeas data), ma piuttosto nel suo lato attivo, come diritto di partecipazione del cittadino al circuito tecnologico delle informazioni, o diritto all'autodeterminazione tecnologica, o ancora come diritto di accesso telematico. Lo stesso Frosini riconobbe che con la diffusione di internet il diritto di libertà informatica era venuto ad assumere un significato nuovo, in posizione dialettica rispetto al precedente, diventando appunto una pretesa di libertà in senso attivo, "non libertà da, ma libertà di, che è quella di valersi degli strumenti informatici per fornire ed ottenere informazioni di ogni genere"12.

Nella prima accezione, ovvero come diritto alla protezione dei propri dati personali dal potere informatico da chiunque detenuto - come è a tutti noto - la libertà informatica ha trovato oramai pieno ed ampio riconoscimento nel diritto positivo, dapprima in seno al Consiglio d'Europa, poi a livello comunitario e nella legislazione interna di attuazione, ed oggi finanche tra i diritti fondamentali dell'Unione europea13.

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Quella stessa libertà informatica, nella seconda accezione, non sembrava aver trovato collocazione nel diritto positivo, fino almeno alla legge n. 4 del 2004, che ha posto le premesse per il riconoscimento del diritto di accesso individuale alle tecnologie come diritto sociale funzionale al godimento delle libertà fondamentali14.

La tardiva comparsa di tale riconoscimento probabilmente è in qualche modo legata alla fatica con la quale i giuristi si affacciano al mondo delle tecnologie, per un verso, ed al vincolo stringente - come già ricordato - al quale i decisori pubblici verrebbero a sottoporsi con il riconoscimento formale di un diritto che impone precise scelte culturali, politiche adeguate e ingenti risorse per una nuova alfabetizzazione di massa e per la realizzazione di un nuovo servizio universale15.

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Ma questa presa di coscienza tardiva del giurista, e del...

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