La “clandestinità”: storia di “evoluzioni” criminali

AutorePatrizia Palermo
Pagine815-826

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@1. Premessa

L’inserimento nel nostro sistema penale delle due fattispecie dotate di rilevanza penale (prima la sola aggravante, poi anche la contravvenzione) riferite alla “clandestinità”1, ha sollevato molte problematiche e perplessità, che investono differenti e innumerevoli aspetti.

Oltre ai tanti dubbi di compatibilità con varie disposizioni costituzionali, per le quali sono state appena date delle risposte da parte della Consulta, le problematiche applicative hanno investito sia questioni di politica criminale in senso lato, sia aspetti che hanno generato dubbi applicativi e timori negli operatori che lavorano nell’ambito dell’assistenza sociale, dello stato civile, nella sanità e nella scuola.

Affrontare e tentare di contenere i flussi migratori attraverso un rialzo delle misure repressive è apparso a molti commentatori, smentiti in parte dal giudizio della Corte, un’espressa violazione soprattutto del principio di uguaglianza, che avrebbe condotto, inevitabilmente alla creazione di un diritto penale speciale, discriminatorio e lesivo dei principali fondamenti costituzionali del nostro sistema (soprattutto degli artt. 2 e 3 della costituzione) e con rischi di incriminazioni di massa e conseguente collasso del sistema giudiziario2. Il ricorso allo strumento penale, come mezzo di garanzia e tutela della sicurezza in senso lato, è sembrato eccessivo e soprattutto non rispondente alle esigenze costituzionali di rieducazione della pena. Come è stato evidenziato in dottrina, ma non solo, la clandestinità è una condizione che favorisce la commissione di delitti, ma non è essa stessa indice di pericolosità criminale. Il carcere è una risorsa costosa e limitata: andrebbe destinata a soggetti i quali siano concretamente in grado di minacciare beni giuridici primari. La sanzione detentiva, distolta dalla funzione che le è propria (…) può produrre effetti inversi sulla sicurezza. Il primo è quello di operare in modo non selettivo, colpendo gli appartenenti al contesto sociale degradato che produce il crimine, ma non necessariamente i criminali. Il secondo effetto è quello di distogliere le risorse di polizia, processuali e penitenziarie rispetto alla repressione dei fatti che producono maggiore allarme sociale. Il terzo non meno rilevante è dato dalla vanificazione degli esiti rieducativi (o comunque correttivi) dell’esperienza detentiva, e dal pericolo di reclutamento e contagio criminale che comporta un carcere connotato da un frenetico flusso di entrata e di uscita, e dunque per definizione incapace di attuare il trattamento penitenziario3.

Il dibattito sul trattamento della “clandestinità” è stato dunque intenso ma per ora sembra aver trovato delle risposte nelle decisioni della Corte Costituzionale, che nel caso dell’aggravante sembra aver accolto le posizioni espresse dalla dottrina e dalla giurisprudenza, mentre per la contravvenzione, la sentenza n. 250/2010 ha rigettato le varie argomentazioni sostenute dai giudici rimettenti.

@2. L’aggravante

La circostanza aggravante comune ex art. 61, n. 1 bis, c.p., in base alla quale era previsto un aumento della pena fino a un terzo nel caso in cui il colpevole avesse commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale è stata oggetto di attente disamine, talvolta contrastanti, ed è stata dichiarata incostituzionale con sentenza n. 249/20104.

La circostanza trova applicazione, in base alla sua formulazione, a prescindere dalla accertata pericolosità del soggetto; basta il mero dato formale della commissione di un reato nel momento in cui il soggetto si trova illegalmente nel territorio dello Stato. “Introducendo una presunzione iuris et de iure di pericolosità fondata sulla mera presenza nel territorio dello Stato in violazione della disciplina amministrativa ex art. 1 T.U. immigrazione 286/1998, l’art. 61, n. 11 bis, c.p. è una tipica fattispecie della legislazione penale dell’emergenza e della sicurezza, in cui si dà rilevanza penale alla mera appartenenza dell’autore a una categoria soggettiva (in questa ipotesi l’immigrato irregolare)”5.

La circostanza di “clandestinità” era comune, prevista cioè, in via di principio, per un numero indeterminato di reati, sia delitti che contravvenzioni, configurati dal codice penale ovvero da leggi penali speciali. La lettera della legge, in particolare, consentiva di riferirla tanto ai reati dolosi quanto a quelli colposi. Il fatto che la circostanza fosse però espressione di una forma di “ribellione” alla potestà statuale, come è emerso anche dal dibattito parlamentare, rendeva assai difficile, ma comunque possibile, la sua configurabilità in termini di colpa.

In base alla regola espressa nella prima parte dell’art. 61 c.p. la circostanza in esame non era però configurabile quando la situazione da essa prevista, cioè la presenza illegale sul territorio nazionale dell’autore del fatto al momento della sua commissione, costituiva già elemento costitutivo del reato. L’aggravante era pertanto incompatibile, ad esempio, con il delitto di cui all’art. 14, comma 5 ter, T.U. immigrazione, ed era altresì incompatibile, e a maggior ragione, con il reato di immigrazione clandestina (art. 10 bis T.U. immigrazione), come si dirà in seguito6.

Da un punto di vista soggettivo poi, l’aggravante era configurabile sia nel caso di stranieri entrati illegalmente, ma anche nel caso di soggetti che pur essendo originaria-Page 816mente titolari di un regolare titolo di soggiorno, non lo erano più e si trattenevano illegalmente7.

L’essere un immigrato irregolare era la causa dell’aggravamento della fattispecie criminale compiuta, qualunque essa fosse (anche nel caso ad esempio di un’ingiuria, reato che con l’ordine pubblico o la sicurezza non ha nulla a che vedere). Appariva prescindere del tutto dall’esistenza di qualsivoglia collegamento o nesso tra la commissione del reato, quale che fosse, e l’illegale presenza dell’autore sul territorio nazionale. Si era puniti ulteriormente (o solo, nel caso della fattispecie del reato di clandestinità) perché si era, indipendentemente da ciò che si faceva, e da quanto l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma penale fosse maggiormente messo in pericolo o leso. Il contrasto con i dettami costituzionali, soprattutto con l’art. 3 Cost., appariva ancora più evidente nel caso di concorso nel reato con soggetti non “irregolari”, che non subivano l’applicazione dell’aggravante in esame poiché non “clandestini” indipendentemente dall’offesa del bene giuridico tutelato.

Non tutti gli autori hanno però condiviso questa interpretazione. Al di là di ciò che emerge dai lavori parlamentari8, dalle opinioni autorevoli espresse dai primi commentatori9 e da organi istituzionali10, per taluni l’aggravante non era una discriminazione di status in senso pieno, tipo le leggi razziali11, e per altri era possibile una lettura costituzionalmente orientata della fattispecie “solo a condizione di restringere notevolmente l’ambito di operatività della disposizione in esame. Riteniamo infatti, che ciò che la norma punisce non è lo status di clandestino dell’autore del reato (altrimenti si verterebbe senza dubbio in una inaccettabile ipotesi di colpa d’autore), bensì la sua volontaria disobbedienza ad un ordine di allontanamento dal territorio nazionale legalmente dato dall’autorità competente”12. Ad avviso dell’autore ad essere punito non era dunque uno status, ma la volontaria disobbedienza ad un ordine di allontanamento impostogli dalla legge. “La ratio della disposizione penale in questione, pertanto, è la medesima di quella che sorregge le disposizioni di cui all’art. 650 c.p. e dell’ art. 14, quinto comma, T.U. imm.”13.

L’aggravamento della fattispecie criminale, dovuto all’essere “clandestino” o dipendente da un fare (contravvenire a un ordine), è il primo centrale aspetto sul quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi, ma non il solo. Per alcuni orientamenti si stava assistendo all’emergere di forme nuove di diritto penale d’autore, mascherate dentro agli schemi del diritto penale del fatto compiuto1415.

@@2.1. La circostanza e i suoi rapporti con la Costituzione

Il primo profilo di illegittimità costituzionale dell’aggravante in esame, è stato evidenziato soprattutto in riferimento all’art. 3 Cost., (principio di uguaglianza), in correlazione con l’art. 2 Cost., (riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo): “Le persone umane non sono tutte uguali di fronte alla legge (penale): lo stesso reato se compiuto da uno straniero irregolare può comportare un aggravio di pena fino ad un terzo. L’aggravio di pena non è legato al tipo di reato o alle sue circostanze, ovvero alla condotta tenuta, ma unicamente alla condizione personale del soggetto, al suo essere e non al suo fare”16. Altri contrasti con il dettato costituzionale, evidenziati dai giudici remittenti, attenevano inoltre gli artt. 13, 25 e 27 cost..

Il problema da risolvere era dunque quello di valutare se fosse ragionevole o meno, o piuttosto costituisse una fattispecie di discriminazione, la previsione di un’aggravante ad hoc per gli immigrati stranieri che si trovino nella condizione di persone illegalmente presenti sul territorio nazionale. Bisognava comprendere se fosse giustificata l’applicazione di una maggior pena per gli autori “clandestini” per il solo fatto di essere tali.

In tutte le ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, relative all’aggravante ex art. 61, n. 11 bis, c.p. non appare infondato il dubbio di legittimità costituzionale sotto il profilo della violazione dell’art. 3, come emerge dalle elaborazioni argomentative dei giudici17.

Per il Tribunale di Ferrara (ordinanza del 15 luglio 2008, n. 308 del 2008), la nuova previsione circostanziale era fondata esclusivamente sullo status del reo, ispirandosi ai canoni propri del «diritto penale d’autore», tanto che non era richiesta, per la sua applicazione, alcuna verifica di connessione tra la condizione soggettiva dell’interessato e la...

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