La sopravvivenza dell'art. 14 Della L. 178/2002 All'interno dell'ordinamento italiano dopo la sentenza della corte di giustizia dell'11 novembre 2004

AutoreAlessandra Bianco/Massimo Medugno
Pagine457-463

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Premessa. - Dopo la pronuncia della Corte di Giustizia che si commenta, molteplici sono stati gli interventi degli operatori del settore e di insigni giuristi. La sentenza ha sollevato voci critiche e grande clamore poiché ha riaperto i termini di una questione complessa e spinosa mai risolta, quella relativa alla definizione di «rifiuto», «minando» le minime certezze su cui negli anni pur se cautamente ci si era appoggiati in attesa che venisse fornita dal Legislatore comunitario una soluzione certa e conclusiva. Fin ad oggi difatti, a livello europeo, non è mai stata elaborata una nozione di rifiuto chiara, che potesse essere applicata unifor-Page 458memente e correttamente all'interno di tutti gli Stati membri dell'Unione destinatari di una Direttiva [la 75/ 442/CEE 1], purtroppo eccessivamente stringata ed ermetica in gran parte delle sue definizioni.

In definitiva, la Direttiva quadro sui rifiuti e tutte quelle che nel tempo l'hanno seguita, contrariamente alle buone intenzioni del Legislatore comunitario, non è mai riuscita ad individuare in maniera esatta e completa «ciò che è rifiuto e ciò che non lo è», ma ha sempre lasciato ampi spazi interpretativi, con incertezze da parte degli operatori economici interessati e, qualche volta, la tendenza ad una interpretazione estensiva da parte dei «controllori».

A conferma delle difficoltà interpretative sulla definizione di rifiuto, è opportuno ricordare che il VI Programma d'azione ambientale europea (Decisione n. 1600/2002/CE del parlamento europeo e del consiglio, pubblicata sulla G.U.CE n. 242 serie L del 10 settembre 2002), contenente i cosiddetti «obiettivi programmatici» dell'azione comunitaria in materia ambientale per i prossimi 10 anni, all'art. 8 comma 2 punto IV), in riferimento all'uso e alla gestione sostenibile delle risorse naturali e dei rifiuti, detta tra le priorità «la rielaborazione o revisione della normativa sui rifiuti, e la precisazione della distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che non lo è». Peraltro, la stessa Commissione, ha avuto modo di esprimere qualche opinione sulla materia. Ad esempio nel caso MEWA, l'applicabilità della legislazione comunitaria dei rifiuti bel campo del lavaggio e del riuso dei panni tecnici, con un parere emesso qualche tempo dopo la sentenza Palyn Granit.

Se a ciò si aggiunge che non esiste una definizione di riciclo a livello comunitario (e che quindi anche quella di recupero, di conseguenza, non sia affatto chiara) e di ciò si è chiaramente consapevoli (Cfr. recente Comunicazione «Verso una strategia tematica di prevenzione e riciclo dei rifiuti» della Commissione, che evidenzia che non esiste una definizione di riciclo a livello comunitario, par. 5.5.1.1), ci si rende conto come la disciplina dei rifiuti a livello comunitario (che quest'anno compie trent'anni) si poggi su dei presupposti non ben definiti.

Ma oltre che per i contenuti in sé stessi la pronuncia ha avuto una vasta eco per i suoi possibili effetti diretti nell'ordinamento nazionale.

E da subito i primi commentatori, a caldo, hanno visto nella pronuncia della Corte «una vittoria contro il male e la criminalità organizzata» 2, ed hanno auspicato di usare la sentenza per concludere e sistemare la questione in via definitiva, disapplicando all'interno del Nostro ordinamento l'art. 14 della L. 178/2002 per dare diretta esecuzione a quanto disposto dalla Corte UE 3.

Pur riconoscendo autorità alle decisioni del Giudice comunitario, va però ricordato a quanti analizzano la vicenda sotto un profilo strettamente giuridico, che una sentenza, pur se proveniente da una Corte autorevole e sovranazionale come quella delle Comunità Europea, non può cancellare quanto statuito dalle norme di diritto interno e comunitario.

A questo punto, visto il disorientamento causato dai primi commenti, sembra doveroso ricostruire brevemente il quadro giuridico in cui intervengono le sentenze della Corte di Giustizia a beneficio degli operatori interessati. Nel corso dell'analisi, ci soffermeremo soprattutto sulle conseguenze dirette che può avere una sentenza della Corte di Giustizia all'interno del Nostro ordinamento.

Il contenuto sostanziale della sentenza e le sue motivazioni. - La sentenza, frutto di un rinvio pregiudiziale ex art. 234 del Trattato promosso due anni fa dal Giudice di Terni, era come detto, attesa principalmente da tutti gli operatori economici del settore, che vantavano, e oggi più che mai vantano, un interesse alla esatta individuazione del significato del termine rifiuto.

La pronuncia ha decretato una nuova definizione di rifiuto che censura completamente il contenuto del vigente art. 14 della L. 178/2002 (pur senza avere però, come vedremo più avanti, la forza di incidere sulla sua attuale efficacia).

La sentenza riguarda un caso verificatosi sotto la vigenza dell'originario testo dell'art. 6 del D.L.vo 22/97 e quindi prima della interpretazione autentica introdotta dall'art. 14 della citata L. 178/02 («Interpretazione autentica della definizione di rifiuto»). Riguarda un trasporto di rottami ferrosi contaminati in parte da sostanze di natura organica quali vernici, grassi o fibre, privo di autorizzazione e di formulario d'identificazione.

La Corte UE dichiarato che «1) La definizione di rifiuto contenuta nell'art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE, non può essere interpretata nel senso che essa ricomprenderebbe tassativamente le sostanze o i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero menzionati negli allegati II A e II B della detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti, o il cui detentore abbia l'intenzione o l'obbligo di destinarli a siffatte operazioni. 2) La nozione di rifiuto ai sensi dell'art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/ 442, come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350, non dev'essere interpretata nel senso che essa escluderebbe l'insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B di tale direttiva.».

Le norme comunitarie e le sentenze della Corte UE di diretta applicabilità all'interno dell'ordinamento di uno Stato membro. - Quanto descritto finora, è l'interpretazione della Corte UE sulla nozione dei rifiuto. Tuttavia, in questa sede ciò che interessa è comprendere quali sono gli effetti che produce all'interno dell'ordinamento italiano questa «implicita» dichiarazione di non conformità dell'art. 14 alla definizione di rifiuto contenuta nell'art. 1, lett. A), primo comma della Direttiva del Consiglio 75/442/CEE pronunciata dalla Corte di Giustizia Europea con sentenza l'11 novembre scorso. In altri termini, quanto disposto dall'art. 14 è ancora applicabile in Italia o con questa pronuncia la norma viene definitivamente espunta dalPage 459 nostro ordinamento? Ed in quest'ultima ipotesi, la sua disapplicazione ha effetto dalla data della sentenza (11 novembre 2004) o sin dal momento dell'entrata in vigore dell'art. 14 (8 luglio 2002)? Se l'inefficacia fosse ab origine, la portata normativa dell'art. 6 del D.L.vo 22/97, compressa dal successivo articolo poi censurato dalla Corte europea, dovrebbe nuovamente dilatarsi? Conseguentemente, la norma riesumata andrebbe applicata anche a tutti i contenziosi amministrativi e penali ancora in corso? E gli atti e provvedimenti amministrativi emanati in dipendenza dell'articolo incriminato dovrebbero essere annullati per illegittimità?

Contrariamente a quanto da qualche giurista è stato inizialmente affermato, la sentenza della Corte, pur se autorevole, lo ribadiamo, non ha efficacia diretta all'interno del nostro ordinamento.

Come è evidente, la questione riguarda i rapporti tra diritto comunitario e diritto nazionale, con particolare riferimento alle norme penali nazionali più favorevoli (sopravvenute).

In proposito la Corte Costituzionale 4 ha negli anni progressivamente enunciato dei principi che hanno permesso di definire con un adeguato margine di certezza il rapporto intercorrente tra i due ordinamenti.

Punto di riferimento è la sentenza n. 170 del 1984. In tale pronuncia la Corte ha enunciato il principio fondamentale secondo cui i due ordinamenti, comunitario e statale, sono «distinti ed al tempo stesso coordinati» (secondo la ripartizione di competenze stabilita e garantita dai Trattati istitutivi) e le norme del primo vengono, in forza dell'art. 11 Cost., a ricevere «diretta applicazione» in quest'ultimo, pur rimanendo estranee al sistema delle fonti statali 5. «L'effetto di tale diretta applicazione - ha puntualizzato la Corte - non è quindi la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest'ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie, oggetto della sua cognizione, che pertanto sotto tale aspetto è attratto nel plesso normativo comunitario».

Tale principio, desumibile dal Trattato istitutivo della Comunità europea (per il tramite della sua legge di esecuzione), è coerente con l'art. 11 della nostra Costituzione che riconosce la possibilità di limitazioni alla sovranità statuale, quale può qualificarsi l'effetto di «non applicazione» della legge nazionale.

Tuttavia, prosegue la Corte, l'ordinamento statale non si apre incondizionatamente alla normazione comunitaria giacché in ogni caso vige il limite del rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana 6. Con successiva pronuncia, n. 168/ 91, la Corte precisa che, tali principi (enunciati nella citata pronuncia n. 170 del 1984), sono riferibili ai soli...

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