Riflessioni e spunti sulla contiguità alla mafia

AutoreVincenzo Patalano
Pagine927-933

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Al tema della contiguità alla mafia, ed ai problemi connessi alla repressione delle attività di fiancheggiamento delle associazioni di tipo mafioso, anche sull'onda di una giurisprudenza molto più penetrante che in passato, negli ultimi anni sono stati dedicati contributi sempre più incisivi che hanno radicalmente modificato gli orientamenti interpretativi sull'argomento. Del resto, dopo un silenzio durato decenni, contributi di un certo interesse dommatico sull'associazione per delinquere si registrano soltanto a partire dagli ultimi anni sessanta. Prima di allora, sembrava che dottrina e giurisprudenza dessero per scontate, e degne di nessuna attenzione, le complesse problematiche che si presentavano in tema di reati associativi.

Oggi il tema ricorrente, anche per l'attenzione destata da numerosi processi che hanno visto imputati personaggi eccellenti, è quello relativo ai limiti di rilevanza penale del cosiddetto concorso esterno nell'associazione mafiosa. E tra i tanti contributi che la dottrina recente annovera, una segnalazione particolare merita il volume citato di COSTANTINO VISCONTI (Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Ed. Giappichelli, Torino, 2003).

Si tratta di una monografia particolarmente densa, attenta alle molteplici prospettive di indagine che un tema come quello del «concorso esterno in associazione mafiosa» inevitabilmente comporta. Una ipotesi di partecipazione in uno specifico reato associativo che deve le ragioni del suo configurarsi, ed i contenuti delle soluzioni interpretative ricevute, ad un complesso intreccio di fattori, sociologici, storici, politico-istituzionali, politico-criminali che, come sempre accade, hanno profondamente inciso sull'elaborazione dommatica e giurisprudenziale.

Di questi profili del problema ermeneutico, il VISCONTI si dimostra pienamente consapevole. La struttura del volume, le soluzioni prospettate, le riflessioni svolte sempre con lucidità critica, a ben considerare, sono il risultato di una ricostruzione nella quale il fenomeno in esame viene analizzato avendo ben presenti le molteplici ragioni che, nel corso della lunga e complessa vicenda storica e politico-criminale sviluppatasi dalle legislazioni preunitarie ai giorni nostri, hanno determinato la rilevanza penale delle condotte di contiguità alla mafia.

L'ampia monografia del VISCONTI propone una metodologia di ricerca che non isola nelle sue varie parti la ricostruzione dei profili caratteristici della contiguità alla mafia. Il problema del fondamento, dei limiti e delle condizioni che - nelle varie epoche - sono state ritenute necessarie a determinare la punibilità dei fatti di sostegno associativo, non viene indagato ricorrendo ad una giustapposizione del profilo legislativo a quello socio-criminologico, del piano giurisprudenziale a quello dottrinario, dell'aspetto di diritto penale sostanziale ai problemi della prova.

L'indagine viene sviluppata trattando tutti gli aspetti innanzi citati in forma trasversale. Il problema del «concorso nell'associazione», in tal modo, viene posto all'attenzione del lettore in tutta la sua straordinaria complessità; una complessità resa ancora più acuta dalla indeterminatezza, per così dire, ricorrente nelle disposizioni che puniscono condotte associative nel codice penale del 1930. Una indeterminatezza che, per quel che riguarda l'incriminazione delle medesime condotte nella legislazione successiva al 1930, in larga misura, ancora caratterizza ogni aspetto dell'esperienza giuridico-penale.

Di qui il ruolo assolutamente preminente svolto dalla giurisprudenza nella definizione dei caratteri, dei limiti di configurabilità del concorso esterno all'associazione. Tanto che non si esita, da parte di qualche Autore, a parlare di figura di «reato giurisprudenziale», così come non si manca dal mettere in guardia sui pericoli che corre il principio di stretta legalità per le tentazioni dei giudici a «creare» (piuttosto che ad applicare) il diritto.

Nessuno può negare che vi sono settori, e quello di cui ci occupiamo qui ne è un esempio significativo, nei quali le decisioni dei giudici, specialmente col radicarsi di orientamenti, assumono la funzione di vere e proprie fonti normative, produttive di principi in grado di colmare quelle che vengono ritenute lacune dell'ordinamento. Il pericolo che questa tendenza implica è che, insieme alla gravissima confusione sul ruolo istituzionale del giudice, che non è legislatore, il radicarsi di orientamenti può comportare (comporta) una pluralità di opzioni interpretative con grave incertezza nell'individuazione delle condotte penalmente rilevanti, e, quindi, con conseguente lesione del principio di stretta legalità.

Di qui il ruolo fondamentale della dottrina che ha la responsabilità di elaborare le questioni e di prospettare soluzioni nella consapevolezza dei valori in discussione, e nel rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento.

Di grande interesse risulta, in primo luogo, la «introduzione» sul problema della contiguità alla mafia nella prospettiva delle scienze sociali. Una scelta di metodo originale (in una monografia che non manca di essere rigorosamente giuridica) ed appropriata, dal momento che il problema oggetto della ricerca risulta fortemente condizionato da istanze di tipo sociologico.

I temi fondamentali vengono lucidamente tracciati nella parte dedicata alla ricostruzione storica della repressione della contiguità alle associazioni delittuose. Viene rilevato, con molta efficacia, che, nonostante l'aspro dibattito sviluppatosi agli inizi del passato decennio circa la configurabilità del c.d. concorso esterno in associazione di tipo mafioso, il problema della punizione delle attività di sostegno e/o di fiancheggiamento del crimine organizzato ha origini molto risalenti nel tempo. In particolare, esso si colloca, storicamente, a latere delle politiche penali di repressione del banditismo, prima, e del brigantaggio, poi.

Ed è interessante notare come la varietà di misure repressive messe in atto nella lotta contro questi fenomeni possa ricondursi a logiche di intervento, ed a categorie concettuali che hanno deciso, in tempi più recenti, delle scelte legislative e giurisprudenziali in tema di criminalità mafiosa. L'accento cade, soprattutto, «sul riscontro di una cronica oscillazione tra due orientamenti tanto speculari quanto confliggenti»: da una parte, il riconoscimento della necessità di dar vita ad un diritto «speciale», sensibile alle istanze di repressione del fenomeno, che faccia ricorso anche a misure straordinarie e specificamente destinate a reprimere il sostegno alla mafia, dall'altra, la tendenza a ridurre la distanza di queste misure dai principi e dalle regole del dirittoPage 928 «ordinario». La qual cosa dimostra quanto sia forte, per il penalista, la resistenza a rassegnarsi all'adozione di misure che tradiscano principi di garanzia tipici del diritto penale. Una legislazione a «doppio binario», in altre parole, sarebbe inconcepibile, e non troverebbe fondamento nemmeno nell'eccezionale gravità del fenomeno da contrastare.

Negli antichi Stati preunitari, il problema si poneva in termini non dissimili da quelli odierni: per un verso, si avvertiva l'esigenza di considerare il banditismo come un fenomeno meritevole di autonoma rilevanza criminosa, che andava tenuto normativamente distinto dai singoli - e normalmente molto gravi - delitti connessi alle scorribande banditesche, per altro verso, si avvertiva la necessità di isolare le aree di complicità che si costituivano intorno ad esso, prevedendo specifiche misure repressive contro quanti, pur non essendo banditi, tuttavia, prestavano loro aiuto.

VISCONTI, con grande lucidità, mette a fuoco il nesso fra queste distinte esigenze di intervento punitivo, individuando i paradigmi concettuali che la scientia iuris del diritto comune era venuta delineando sulla base della tradizione romanistica. Così, per soddisfare le istanze di repressione del banditismo, inteso nella sua specifica dimensione di crimine collettivo, si andà delineando la figura del latrocinium, mentre, per reprimere condotte di solidarietà ed appoggio dei gruppi banditeschi, da parte di non associati, si ricorse all'ipotesi criminosa della receptatio. Qui, la ricostruzione storico-normativa appare di particolare interesse, e rivela finezza culturale e capacità di elaborazione, soprattutto in quelle parti dove vengono indicate le fonti, individuandole nelle leggi contra receptatores del Regno di Napoli, quella contro «fautori, ausiliatori, ricettatori e seguaci» dei banditi emanata dalla Repubblica genovese nel 1604 e, prima ancora, una Costituzione di Federico II, nonché prammatiche del vicerè napoletano della fine del seicento.

Grande attenzione viene dedicata anche all'evoluzione della disciplina ottocentesca in tema di partecipazione e complicità. In questa prospettiva, l'interesse si appunta specificamente sulle figure emblematiche delle codificazioni di primo ottocento: l'associazione di malfattori del codice napoleonico del 1810 e la comitiva armata prevista dal codice penale per il Regno delle Due Sicilie del 1819.

Con riferimento alla prima figura criminosa, VISCONTI ricorda come essa fosse considerata, ad un tempo, droit nouveau e compatibile con i principi guida del codice. Il rilievo si fondava sulla circostanza che con essa non si incriminavano meri atti preparatori di singoli delitti. Ed infatti il contenuto dell'incriminazione si riferiva all'associazione quale forma di «attentato all'ordine pubblico che in questo caso non solo è minacciato, ma è già compromesso». La trattazione dell'argomento si arricchisce del serrato dibattito dottrinale sulle numerose questioni interpretative sollevate a proposito degli artt. 265, 267 e 268 del codice napoleonico. È, in particolare, quest'ultima disposizione a richiamare l'interesse dello studioso. Nella sua seconda parte, infatti, la norma puniva tutte quelle persone che «avranno scientemente e...

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